Il nostro magazine è partito da una settimana e il destino ci ha posto una grande sfida dal punto di vista della comunicazione mediatica e del giornalismo; la guerra. I lettori più attempati ricorderanno la grande fioritura dei canali di informazione durante la guerra del Golfo dove, di fatto, la Rai perse il monopolio dell’informazione. Il pluralismo dell’informazione portò alla ribalta Mentana con le sue maratone elevando, per così dire, il ruolo del cronista di guerra a un ruolo di anchor man sullo stile dell’ormai rodatissimo giornalismo televisivo made un U.S.A. Sono stati scritti centinaia di libri e saggi sul ruolo dei media durante le guerre ed è inconfutabile ormai rilevare che questi sono funzionali alla guerra e viceversa, basti pensare al conflitto ancora in atto tra Russia e Ucraina.
I giornali della carta stampata arrancano e perdono in partenza contro la velocità della luce del web. Oggi proliferano canali propagandistici su Telegram che diventa la fonte ufficiale della maggior parte delle “informazioni” raccolte dai giornalisti influencer che remixano la verità a loro uso e consumo che poi ci ritroviamo su Instagram che, al momento, inseme a Facebook rimangono le fonti ufficilali di (dis)informazione per la maggior parte della popolazione mondiale.
Quando il lettore cerca di farsi un’idea propria, viene sovrastato da una marea di immagini e opinioni che lo confondono sempre di più fino a quando il cervello non elabora più le informazioni e così va ad intercettare solo immagini forti che generano una reazione immediata ma non vengono elaborate, perchè nella fase di elaborazione arriva veloce un altro impulso e così via a botte di refresh sui feed. Questo fenomeno è uno dei tanti mali dei nostri tempi e si chiama infodemia che, guarda caso, è un neologismo.
Questo grande magma cancella i chiaroscuri e porta il lettore (il ricevente, per dirla alla McLuhan) ad avere posizioni sempre più nette, radicali, assolute: bene o male, like o non like… la tecnocrazia è la logica delle macchine: la logica binaria. Quando abbiamo “scelto” da che parte stare, veniamo fagocitati da un algoritmo costruito ad hoc che ci proietta in un cono di contenuti che servono a radicare in noi quella scelta iniziale (like non like) ed ecco la bolla, il liquido amniotico digitale delle nostre precarie certezze.
Per tornare alla guerra, noi di Dillinger non abbiamo abbastanza fondi per inviare un reporter a Gaza e poco ci fidiamo dei social per i motivi sopracitati, quindi abbiamo scelto idealmente un’ inviata che stimiamo ed apprezziamo da sempre: Cecilia Sala.
Cecilia è una giornalista che ha deciso nei giorni scorsi di movimentarsi e andare a documentare per il “Il Foglio” questa difficile guerra, difficile perchè religiosa e geopolitica, difficile perchè ha tanti chiaroscuri che sono impossibili da intercettare nella nostra bolla binaria.
Facciamo gli auguri a Cecilia, grande donna e un grande esempio per chi vuole svolgere questa professione e non da influencer…
Chi è Cecilia Sala? Fonte wikipedia
Nata nel 1995 a Roma, ha lavorato sia in redazioni che come giornalista freelance, occupandosi soprattutto di esteri. Nel 2015 ha iniziato a collaborare come inviata e reporter con Vice, mentre frequentava economia internazionale all’Università Bocconi di Milano; successivamente inizia a lavorare con Michele Santoro a Servizio pubblico su LA7, dove diventa giornalista professionista.[1] Nel corso degli anni ha collaborato con Vanity Fair, L’Espresso, la Rai e Will Media, e ha lavorato nella redazione di Otto e mezzo su LA7. Dal novembre 2019 entra a far parte della redazione de Il Foglio[2].
Nel 2020 esce per Huffington Post Polvere[3], podcast sull’omicidio di Marta Russo in collaborazione con Chiara Lalli. Nel maggio del 2021 la serie audio diventa anche un libro, Polvere. Il Caso Marta Russo, edito da Mondadori Strade Blu. Dal 10 gennaio 2022 diventa autrice e voce di un nuovo podcast, Stories[4], di Chora Media, che racconta ogni giorno storie dal mondo.