Telegram si è trasformato ormai nel lato oscuro dei social, il posto dove ogni cosa è pubblicabile, un Dark Web disponibile per tutti. Armi, droga, soldi falsi, ma anche fotografie e video proibiti, che vengono venduti a cifre folli.
Il revenge porn
In Italia è dal 2019 che è stata introdotta la legge contro chi diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito senza il consenso della persona interessata. I quali possono essere puniti con la reclusione da 1 a 6 anni e multato da 5mila a 15 mila euro. Peccato che da allora, tutte le associazioni dedicate al monitoraggio della situazione e all’aiuto e il supporto di cui le vittime necessitano, affermano che tutto questo non sia poi così cambiato. Il reato in questione, dal legislatore viene definito “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”, o più comunemente ed erroneamente chiamato “revenge porn”, il cui significato letterale sarebbe “vendetta porno” o “pornovendetta”, in cui la vittima viene minacciata dalla divulgazione delle proprie foto in situazioni intime o imbarazzanti.
147 gruppi italiani che si scambiano foto e video proibiti, anche minorenni
Un nuovo rapporto ha contato ben 147 gruppi italiani su Telegram, in cui ci sarebbero scambi di foto e video di donne, spesso anche minorenni. Un dato ridicolo se affiancato alla pena scritta sul codice penale. La ragione per cui questo dato è rimasto invariato se non addirittura peggiorato, è l’inefficacia della legge la cui applicazione è sempre più rara. Ed è proprio per questo motivo che gli attivisti si concentrano più sulla creazione di strumenti digitali per rendere sempre più semplice e funzionale l’identificazione e la rimozione di questi contenuti, stringendo anche rapporti diretti con le piattaforme su cui foto e video vengono condivisi. Nonostante il discreto successo, purtroppo, ogni porta che si chiude, se ne aprono altre cento.
Telegram si erge a “paladino” della libertà
Telegram negli ultimi anni ha conquistato una fama di livello mondiale, basando la propria reputazione su dei punti cardine della piattaforma: primo fra questi lo sviluppo di strumenti per permettere la creazione e il mantenimento di gruppi anche molto numerosi; la possibilità di rimanere totalmente anonimi all’interno della piattaforma; la capacità di offrire comunicazioni protette dalla crittografia end-to-end, che in parole spicce permette solo al mittente e al destinatario di visualizzare il contenuto dei messaggi, un po’ come i primi computer di Steve Jobs. Infine, la più succulenta, è il fatto che la piattaforma,con sede a Dubai, si rifiuta in modo sistematico di collaborare per rimuovere contenuti considerati dannosi. La ragione? L’applicazione avrebbe un’interpretazione molto singolare sul concetto di libertà d’espressione che, non si sa mai, si voglia censurare qualcuno…
Una sottospecie di giungla, con tanto di animali selvatici dentro
Telegram è a tutti gli effetti una giungla, dove gli animali al suo interno posso fare ciò che vogliono: la piattaforma nella sezione “domande frequenti” afferma che blocca “bot e canali legati al terrorismo”, ma che non ha certo intenzione “di bloccare chi esprime pacificamente altre opinioni” perché “tutte le chat e i gruppi Telegram sono territorio privato dei loro rispettivi partecipanti”. Questa politica, che rende l’app un luogo selvaggio dove vige l’anarchia totale, l’impunibilità dei soggetti e la conseguente possibilità di trovare contenuti che nel resto dei canali social sarebbero censurate, ha minato negli anni aspre lotte fra i governi e la piattaforma.
Scambio foto fidanzata, sorella, cugina, madre, amica, figlia
Varie inchieste circolano oggi sul Web dove vengono riportati le aberranti conversazioni su dei famigerati “scambi”. Ffra i più comuni ci sono gli scambi che avvengono quando un utente chiede in una chat pubblica foto o video di una certa categoria di persone, olitamente per aumentare la propria collezione digitale per masturbarsi. Ad esempio si leggono frasi al limite del reale, come: “scambio ragazze 2008, 2009, 2010 per lo stesso”, “scambio fidanzata napoletana”, “chi scambia amiche?”, offrendo contenuti a degli sconosciuti su persone che si conoscono, in cambio di foto di ragazze mai viste prima. Tutto ciò avviene in privato, dove la crittografia a sistema chiuso di cui parlavamo prima copre ciò che ha tutti gli effetti è un reato.
Molto più di una foto
“L’obiettivo principale è quello di denigrare e mercificare la figura della donna: questo perché il tutto non si limita alle divulgazioni di foto, ma bensì vengono accompagnate da insulti pesanti e diffamatori, dalle informazioni personali sulle vittime: sembra che si cerchi di alimentare il più possibile un odio diverso il genere femminile”, spiega la criminologa Edel Margherita Beckman, una delle autrici del rapporto. Innumerevoli sono le ripercussioni di questi comportamenti sulle vittime, che si sentono vessate e umiliate di non poter avere il controllo sul proprio corpo. C’è che risponde con la depressione, disturbi da stress post-traumatico, proprio come succede alle vittime di stupro. Fino al peggiore degli scenari, in cui l’unica via d’uscita da una situazione di tale imbarazzo appare alla vittima il suicidio.
Le soluzioni degli attivisti
Secondo Silvia Semenzin, attivista che ha lavorato attivamente all’adozione dell’articolo 612 sul revenge porn, sottolinea la mancanza di una sensibilizzazione e un’educazione a più livelli. Oltre ad una tecnologia che sempre più velocemente sta peggiorando la situazione. Infatti, invece di sfruttarla come si deve, si è sviluppata un sistema in grado di inserire la foto di una persona vestita e crearne un “deepfake”, in cui il volto della persona rimane lo stesso, ma il corpo vestito viene sostituito da un nudo immaginato o addirittura creato dall’intelligenza artificiale.
“Le soluzioni sono tante, molto complesse e soprattutto non veloci. Io sono profondamente convinta che serva una cooperazione transnazionale sul tema, perché internet non ha frontiere nazionali: servirebbe per esempio un’azione di lobbying sulle istituzioni europee, dato che nel Digital Services Act o nell’AI Act (due regolamentazioni europee che si occupano rispettivamente di moderazione dei contenuti sulle grandi piattaforme e di intelligenza artificiale) non c’è traccia di discussioni sulla violenza di genere online”, dice Semenzin. “In Italia, poi, non esiste neanche un corpo speciale di polizia dedicato alle violenze digitali di genere: tutto va nel tavolino della polizia postale. Così si accumulano le denunce e non si fa mai niente”.
Ci si crede invulnerabili dietro uno schermo, forse perché effettivamente è così. La legge oltre a trascriversi su un pezzo di carta non fanno poi così tanto. C’è bisogno di un cambiamento vero, una manovra di emergenza. Perché finché si leggono articoli sui giornali va bene, ma quando le vittime saranno persone vicine a voi, vi scatterà la stessa ira che è scattata nella testa delle persone colpite. Non è possibile che una piattaforma privata aggiri le norme mondiali e lasci che la vita di alcune persone venga devastata come se nulla fosse.