La testimonianza dei genitori di Joel Cauchi, il 40enne che ha ucciso a coltellate sei persone in un centro commerciale di Sidney, è un esempio straziante della sofferenza di tantissime famiglie nelle condizioni di convivere – e riuscire ad amare come un figlio – con un soggetto colpito da gravissimi disturbi psichiatrici.
Il loro tragico senso di colpa, la disperazione e l’ammissione di un fatale senso di impotenza fanno certamente riflettere. E molto.
È scientificamente riconosciuto: la psiche umana è un mistero che conosciamo, al massimo, al 10 per cento.
I fatti sono noti. Armato di una lama, Joel Cauchi è entrato, apparentemente calmo, nel centro commerciale. Man mano che il raptus omicida si impadroniva della sua psiche, si è messo a correre all’impazzata fino a che è stato abbattuto da un agente. Sul terreno ha lasciato sei cadaveri, cinque di donne.
Era un omossessuale dichiarato, in cura fino dall’età di 17 anni per una diagnosi di schizofrenia. Una delle più gravi e pericolose forme di patologia psichiatrica.
Vediamo tutti in televisione gli spot di Ong di vario genere, impegnate nell’assistenza alla disabilità e nella raccolta di fondi per mantenere i loro nobili sforzi.
Purtroppo, sono meno noti, se non ignoti, gli aiuti su cui potrebbe contare una famiglia con un grave malato psichiatrico. Spesso dannoso sia per sé stesso, sia per il prossimo.
La furia omicida riempie i casi di cronaca: stragi nelle scuole, nei luoghi pubblici; il precedente di Anders Breivik, killer devoto al nazismo che fece 77 vittime in Norvegia, a Oslo e nell’isola di Utoya.
La giurisprudenza ha coniato i concetti di “infermità mentale” e di “incapacità di intendere e volere” per sottrarre persone in preda al delirio alla legge del taglione. Quel che si può, forse, fare è metterli nelle condizioni di non nuocere. Ma non ci si riesce quasi mai, prima di sottrarli alla comunità civile e rinchiuderli in carcere.
Per questo, la testimonianza di Andrew e Michelle Cauchi, genitori dell’assassino di Sidney, merita una menzion d’onore per la sincerità e la prostrazione di una coppia dalla vita, per sempre, segnata.
Prima di tutto, il perdono all’l’ispettore Amy Scott, che ha sparato al loro Joel: «Non ce l’abbiamo con l’agente di polizia che ha sparato a nostro figlio, perché stava solo facendo il suo lavoro per proteggere gli altri e speriamo che se la cavi bene».
Barba e capelli bianchi e incolti e aspetto da eremita, il padre non trattiene le lacrime: «Un ragazzo molto malato», spiega.
«Sono estremamente dispiaciuto. Il mio cuore è spezzato. Quel che è accaduto è talmente orrendo che non posso nemmeno spiegarlo. State provando a chiedermi», si rivolge ai giornalisti che lo riprendono in un video, «un’intelligente conversazione.
«Non posso farlo. Sono troppo devastato. Io amavo mio figlio. Mi sono trasformato nel suo servitore quando ho saputo che era affetto da una patologia mentale. Ho fatto di tutto, perché amavo il mio ragazzo».
La madre Michelle aggiunge: «Tutto questo è assolutamente un incubo per due genitori. Era in cura da oltre 18 anni. Il mio cuore è affranto per le sue vittime».