Il 18 novembre di due anni fa, un giovane detenuto del carcere Beccaria è accusato dell’incendio scoppiato nella sua cella. Sette agenti lo vanno a prendere: mani dietro la schiena, manette, calci, pugni e sputi. Per dieci giorni va in isolamento. Durante i primi tre non ha un materasso, un cuscino, delle lenzuola. Un mese dopo, quattro poliziotti ne pestano dicendogli “perché hai rotto i coglioni?”. Dopo il pestaggio sanguina dalla bocca: “Figlio di puttana, vedi di sciacquarti perché altrimenti te ne diamo altre”. Poi prima di Natale un altro ancora, che viene minacciato, gli dicono “Ti sparo, ti ammazzo”. Poi c’è chi viene preso a cinghiate sui genitali fino a sanguinare, chi ha “mentre la “colpa” di essersi ribellato alle molestie sessuali di un poliziotto. Per questo in gruppo lo portano in una cella d’isolamento. Nudo, ammanettato e gli dicono “bastardo, arabo, zingaro”.
Il sistema Beccaria
Quello del Beccaria è “un sistema consolidato di violenze reiterate, vessazioni, punizioni corporali, umiliazioni, pestaggi di gruppo realizzati dai poliziotti a danno dei detenuti minorenni”. A dirlo e scriverlo è la gip Stefania Donadeo. Sono 25 i poliziotti indagati, 13 in carcere, otto sospesi dal servizio dal giudice. Le accuse sono di: tortura, lesioni, maltrattamenti, falso e, in un caso, tentata violenza sessuale. L’indagine è nata un anno fa dalla segnalazione del Garante dei detenuti di Milano Francesco Maisto, che ha raccolto le informazioni dell’ex consigliere comunale David Gentili, a sua volta a contatto con una professionista del carcere.
Sarebbero per ora 12 le vittime, diversi i casi, spesso legati da un filo: le violenze avvenivano nell’ufficio del “capoposto” o nelle celle d’isolamento, perché ovviamente erano spazi senza telecamere. Ma alcuni pestaggi sono state captate e alcune immagini, a detta degli stessi indagati, sono “devastanti”. I detenuti avevano paura di denunciare per timore di ritorsioni, ma poi era tale il dolore che hanno parlato. Così come hanno testimoniato una psicologa e la mamma di un recluso che in videochiamata ha visto i segni delle botte al figlio.
Questa è la triste realtà delle nostre carceri, e che sia successo in un carcere minorile è una delle pagine più tristi del nostro Stato di diritto. Forse è morto, o forse sanno che comunque non ne pagheranno le conseguenze.