Giovanni Minoli è una figura che ha lasciato il suo segno nella storia della televisione. Ha sempre avuto una visione precisa dell’utilizzo di quel mezzo di comunicazione e delle sua finalità.
Non solo Mixer e La Storia Siamo Noi, Tra i prodotti che hanno segnato la sua carriera, c’è senza dubbio Un Posto al Sole, uno dei titoli più longevi e di maggior successo della Tv italiana. Fu Minoli, a metà degli anni Novanta, a pensare a questo prodotto e alla sua collocazione nei palinsesti Rai. Successo non solo italiano ma mondiale, per il quale Minoli ha ricevuto la cittadinanza onoraria di Napoli ad aprile del 2023, per poi candidarsi pochi giorni dopo alla presidenza della Rai.
L’intervista completa a Fanpage
Minoli, era il 1996 quando Un Posto al Sole partì. Trent’anni fa avresti scommesso su un esito come quello di oggi?
Ci ho sperato. Io penso sempre che le cose che si sognano si realizzino. Siate sempre realisti e chiedete l’impossibile.
Un Posto al Sole ha una storia particolare, la sua genesi deriva da un format australiano. Come viene questa idea?
All’origine c’è un format australiano, Neighbours, che ci ha ispirati. Noi però lo abbiamo completamente stravolto su un punto fondamentale, l’aderenza alla realtà italiana. Coinvolgemmo un gruppo di ricercatori del Censis che studiavano lo sviluppo della società italiana e davano input agli sceneggiatori. Si è trasformato anche in un modo di produrre in esterna, che serve per restare nella realtà. Quindi noi abbiamo stravolto completamente l’ispirazione originaria, quella di avere un luogo in cui le classi sociali si incontrano tutte. Questo metodo ha dato l’imprinting a Un posto al Sole che non è una soap opera, ma un romanzo popolare.
Perché proprio Napoli?
Molto semplice, il centro di produzione Rai di Napoli doveva essere venduto. Era la stagione dei professori a gestire la Rai e c’era un unico consigliere del sud, Elvira Sellerio, una donna intelligentissima che una notte mi chiama e dice: “Vogliono vendere il centro di Napoli, io sono l’unica consigliera del sud e questo non può accadere. Portami un’idea domani mattina”.
L’idea che portò era già il prototipo di Upas?
Io stavo studiando da tempo la lunga serialità e la fiction, pensavo che le due peculiarità della Rai, il cinema americano e lo sport, sarebbero passate alla pay Tv. Rimaneva solo la fiction. Già allora, alla fine di Linea Verde, proponevamo una sorta di feuilleton francese che si chiamava Silvia dei tre olmi, prodotto dal Credit Agricole, che raccontava la storia di questa ragazza di città che lavorava in banca e si innamorava di un contadino, andava a vivere con lui in campagna dove porta tutte le sue idee e l’esperienza cittadina. Prima è odiata, poi la fanno sindaco. Avevo capito che la fiction poteva essere il veicolo migliore del racconto della trasformazione culturale del Paese.
C’è una figura che lega Neighbours a Un Posto al Sole, quella di Wayne Doyle. Questo australiano che si ritrovò ad essere capo sceneggiatore di entrambi i progetti e poi anche di Agrodolce, versione siciliana di Upas.
Con lui abbiamo avuto discussioni vere e feroci, perché era un uomo intelligente. Arrivato in Italia pensava di riprodurre in maniera identica il modello della soap australiana, dopo un po’ ha capito che io non volessi fare Neighbours, ma un’altra cosa.
Posto al Sole è molto amato fuori da Napoli soprattutto da chi ha dovuto lasciare Napoli.
Ma non solo, la sua riconoscibilità è una sorta di misteriosa italianità che fa di Un Posto al sole il programma italiano più visto al mondo, sono 60 milioni gli italiani che vivono fuori Italia e tutte le comunità si ritrovano a tutti i livelli professionali e sociali a vedere Un Posto al Sole. Gli attori, che girano il mondo, vengono trattati come star di Hollywood quando vanno nelle little Italy di tutto il mondo. E poi devo dire che in Un Posto al Sole c’è l’Italia che, senza saperlo, è l’Italia migliore.
Tu guardi Un posto al Sole?
L’ho guardato per tanti anni, poi c’è stata anche una fase di rigetto quando ho dovuto lasciare la gestione del progetto, non riuscivo più a venire a Napoli. È stato un amore totalizzante, fare il produttore unico di una lunga serialità ha un rischio tremendo, ti fa sentire Dio, perché tu gestisci la vita dei personaggi, ti dà un’idea di onnipotenza pazzesca perché vedi che incide sulla vita delle persone.
La narrazione vuole che Un Posto al Sole nasca come progetto sostitutivo di “Davvero”, andato in onda nel 1994. Quello può essere considerato come un antenato dei reality?
Assolutamente sì, lo creammo con questo proposito. Il confronto da fare è proprio tra Davvero e il Grande Fratello. Il primo non aveva il game che aveva invece il GF, anche se partivano entrambi dall’idea di analizzare la vita dei personaggi in un lasso di tempo limitato Nella sua definizione teorica è la storia della vita, uno su mille ce la fa. Io ne parlai a lungo con De Mol, il genio che inventò il Grande Fratello, proposi alla Rai di fare una società con lui, ma non se ne fece nulla. Era troppo presto.
La narrazione vuole che Un Posto al Sole nasca come progetto sostitutivo di “Davvero”, andato in onda nel 1994. Quello può essere considerato come un antenato dei reality?
Assolutamente sì, lo creammo con questo proposito. Il confronto da fare è proprio tra Davvero e il Grande Fratello. Il primo non aveva il game che aveva invece il GF, anche se partivano entrambi dall’idea di analizzare la vita dei personaggi in un lasso di tempo limitato Nella sua definizione teorica è la storia della vita, uno su mille ce la fa. Io ne parlai a lungo con De Mol, il genio che inventò il Grande Fratello, proposi alla Rai di fare una società con lui, ma non se ne fece nulla. Era troppo presto.
Il Grande Fratello ha cambiato la Tv.
Senza dubbio, l’ultimo vero cambiamento di questo mezzo. Poi col tempo è diventato una soap opera, una finzione totale che fa orrore.
Tu tra il 1993 e il 1994 gestivi in Rai la struttura dei format, la fucina in cui si ideavano i programmi per la Rai. Perché è finita?
Perché davo fastidio. Come persona e come progetto. Se tu pensi che lì è nato Report con Milena Gabanelli, La Storia Siamo Noi, Rai Storia, circa 100 programmi. Avevo quattro seconde serate per 12 mesi all’anno, una macchina di produzione e idee fantastica.
È una struttura che oggi sembra mancare. Perché?
Perché manca l’intenzione di inventare qualcosa.
Forse perché non c’è più bisogno di inventare in Tv?
Un po’ non c’è più bisogno, la Tv generalista è un prodotto obsoleto, direi maturo. La vera innovazione oggi sono le scenografie, le luci, le regie. In fondo un quiz è un quiz, l’ultimo genere innovativo è stato proprio il Grande Fratello, che per l’appunto ruppe lo spazio della Tv, imponendosi come multipiattaforma, infatti andava anche sui telefonini. Spalancava uno sguardo su un mondo che non c’era e che oggi è saturo.
Il Minoli spettatore ha notato che da qualche anno sono improvvisamente tornate di moda le interviste in Tv?
Hanno scoperto il “Faccia a faccia”, risponderei così.
Sembra un riferimento a quella televisione con cui avevi molto innovato tra anni Ottanta e Novanta.
Forse eravamo avanti? Chissà. Dopo siamo tornati indietro coi talk, più utili ai giornalisti che al pubblico. Chi ha sputato sulla Tv per 30 anni dicendo fosse una cosa solo per cameriere, ha iniziato ad essere ovunque in Tv, perché rende famosi e riconoscibili, oltre a far guadagnare. Ma gli opinionisti non contano niente, i politici possono far schifo quanto vuoi ma alla fine sono loro a fare le leggi.
Il talk ha impoverito la Tv?
Il talk impoverisce la parola, che ha perso la sua funzione primaria di informazione ed è diventata un proiettile, uno strumento di offesa per colpire l’altro, non per spiegare e farsi capire. Così hai anche distrutto la politica in un certo senso.
Sul rinnovato interesse degli spettatori per le interviste cosa pensi? Sembrava una curiosità quasi sparita e invece…
Sembrava sparita perché chi fa i palinsesti decide cosa c’è e cosa sparisce. Hai consumato un genere, il talk, e poi ne rigeneri un altro che già c’era prima.
Nei Faccia a Faccia c’erano dialoghi serrati, botta e risposta, l’ospite era assalito da domande. Oggi i programmi di tendenza danno spazio ai silenzi, le pause.
Mixer aveva l’intento di scoprire l’essenziale della politica, rispetto a un modo di comunicare che era ridondante di parole. Ti piace o non ti piace? Per chi voti? Credi in Dio? Domande semplici. Con Zavoli eravamo arrivati a elaborare l’intervista ideale, teorica, fatta di domande precise che costringevano a rispondere sì o no. Significava uno studio preventivo così approfondito dell’altro, da metterlo di fronte a se stesso a nudo. È un’estremizzazione teorica, ma il piano era quello.
Hai detto di aver concepito La Storia Siamo Noi come trasposizione della serialità americana mescolata al giallo.
È così. Per questo programma noi siamo stati premiati con l’Oscar per il miglior progetto di divulgazione storica al mondo nel 2012, perché io ho applicato la tecnica di costruzione del telefilm americano con il racconto del giornalismo per interrogativi, cioè il giallo. E infatti lì restano e resteranno per sempre, è Tv da conservare.
A proposito della conservazione, oggi La Storia Siamo Noi non è disponibile per la Rai. Ci sono novità sugli accordi con l’azienda per i diritti del programma?
Quelli sono affari miei.
C’è chi legittimamente si chiede che fine abbiano fatto e perché non siano fruibili.
Sono lì, noi li usiamo alla radio, sempre, tutti i giorni, ogni sera alle 23.
In questi giorni esce Il giovane Berlusconi su Netflix, un documentario che contiene la tua intervista celebre a Mixer. Minoli ha intervistato Berlusconi quando non era ancora Berlusconi. In prospettiva che idea ti sei fatto di come siano andate le cose?
Intanto quell’intervista è stata un enorme successo di ascolti, fu seguita da 18 milioni di telespettatori. Un’intervista forte, vera, efficace, potentissima, 45 minuti duri e divertenti insieme. Io poi ho conosciuto bene Berlusconi perché parlare con lui di Tv era affascinante, in quanto ci capiva molto.
Non c’è mai stata offerta da parte sua?
Mi avrà proposto cento volte di andare a lavorare per lui, ma non ho mai accettato perché sono ideologicamente contrario al conflitto di interessi. Non potevo accettare e non so come sarebbero andate le cose, visto come sono andate con la Rai, ma tant’è. Però mi sarebbe piaciuto lavorare per un capo che capisce la materia di cui parli.
Aveva una conoscenza emotiva o tecnica del mezzo televisivo?
Entrambe le cose, capiva tutto. Personaggio interessantissimo, sfaccettatissimo. Se noi pensiamo a quei 4 foglietti scritti la sera prima di morire e l’ultima frase che dice a Marina – “perché nella vita si fa tanto e poi va così” – con una dolcezza che fa riflettere e che si ritrova nel rapporto che c’è tra i figli di Agnelli e quelli di Berlusconi. Due mondi, uno che sembrava il meglio possibile, l’altro la Standa. Questi ultimi si sono messi d’accordo su tutto, compresa l’ultima compagna, dall’altra parte la madre contro i figli per 5 miliardi di eredità non dichiarata. Ci sarebbe da fare una riflessione su quante cazzate ci siamo detti.
Induce anche a un’ulteriore riflessione politica sul personaggio?
Non avrei mai potuto votarlo e non l’ho mai fatto, ho sempre votato centrosinistra, però mi piace riflettere e capire le cose. Capirle per davvero.
Quella a Berlusconi è stata la migliore intervista di Mixer?
Beh sai, ne avrò fatte centinaia di ogni tipo, dal Dalai Lama a Kissinger che si infuriò su Moro.
Un’intervista che non sei riuscito a fare?
Ce n’è una che non ho chiuso per scelta, quella con Ted Kennedy. Andammo fino in America, era combinato tutto, poi all’ultimo istante lui disse che non avrebbe voluto parlare dell’incidente di Chappaquiddick, in cui lui lasciò morire la sua segretaria annegata. Ma come, dissi, l’evento che ha cambiato la sua carriera politica, doveva fare il presidente e non l’ha più fatto per quello scandalo. Gli ho detto che se non si parlava di quello, non si faceva l’intervista.
Si parla spesso degli accordi tra chi è intervistato e chi fa le domande.
L’accordarsi ha tante forme, dire grossomodo quali sono i temi di discussione, cosa che ho sempre fatto con tutti. Non ho mai detto come perché in un faccia a faccia il 50% della sequenza logico-psicologica è preparata, l’altro è improvvisazione. Bisogna studiare molto per preparare un faccia a faccia, fare in modo da ingabbiare il tuo interlocutore.
Torniamo a Un Posto al Sole per un attimo: l’esperimento di Agrodolce, equivalente siciliano, non ebbe la stessa fortuna.
Era molto più avanti, andò avanti per una stagione con buoni risultati, ma la Rai scelse male i produttori esecutivi di Agrodolce che non erano persone corrette. Chiusero la produzione dopo aver avviato il progetto, perché forse non riuscivano a trarre quello che si aspettavano.
La chiusura dipese anche da altri fattori?
Fu anche per una ragione politica, dipesa dal cambio di gestione politica della Sicilia. C’era un assessore alla cultura che voleva esserci in ogni puntata. Non è riuscito a farne nemmeno una, mai cedere.
Una caratteristica che contraddistingue Mixer è vederlo, oggi, attraverso frammenti sui social, di fatto costruito come è concepita la tv oggi. Chissà se al tempo lo immaginavi.
Chissà se un artista, quando fa un’opera d’arte, sa esattamente quello che fa. Fa quello che sente, quello che gli ditta dentro il cuore. io sono stato aiutato molto dal fatto di non appartenere al mondo della comunicazione, venire da una formazione diversa, famiglia di avvocati, nessun parente nel mondo del cinema e della Tv.
L’invenzione del chroma key la dice lunga su questo utilizzo istintivo del mezzo tecnico.
Io quando ho provato la prima volta in teatro avevo tutti i tecnici contro, mi dicevano che così non si poteva fare, che quel campo/controcampo era orribile. Ogni tecnologia ha il suo linguaggio, devi solo capire qual è. Il chroma key c’era, ma nessuno ne aveva colto l’anima, cosa potesse darti di più.
L’onorificenza di oggi può apparire come una disgelo con la Rai?
Disgelo? Dopo 50 anni?
Beh dei contrasti ci sono stati.
Assolutamente, mi hanno cacciato tante volte. Ma pensa che io i primi contrasti li ebbi con Celli, allora direttore generale della Rai e teoricamente amico. Lui sosteneva che la Rai fosse un’azienda di processo e io sostenevo che la Rai fosse un’azienda di prodotto. Gli dissi di mandare in onda le sue circolari in prima serata, se fanno il 30% allora hai ragione tu, altrimenti bisogna inventare dei programmi. La centralità del programma e degli uomini del programma è sempre stato lo scontro che ho avuto con la Rai. Gli uomini di prodotto vengono fatti fuori, perché spesso comandavano persone che passavano per strada e di Tv non sapevano nulla.
Cosa si poteva fare per controllare il prodotto?
Appaltare, che è quello che è accaduto. Oggi tu hai un’azienda con 15000 dipendenti, 1800 giornalisti e produce in outsorcing l’80% di quello che va in onda in prima serata. E ti chiedi cosa facciano quei 15000. La risposta è che si inventano percorsi burocratici per impedire a chi ha delle idee di realizzarle.
Ti stuzzica l’idea del ritorno?
Ritorno a fare cosa? Per farlo bisogna avere il potere. Io non sono mai andato via, andiamo in onda tutte le sere in radio, con Ludovica (Siani) e Sara (Tardelli). Però siamo in una nicchia protetta.