Nominato primo Ministro di Spagna a giugno 2008, dopo aver capitanato la mozione di sfiducia al premier in carica Mariano Rajoi, Pedro Sánchez nel bene e nel male è un politico che “si distingue dal luogo comune”.
Primo nella storia iberica a giurare davanti a re Felipe IV senza simboli religiosi, in quanto dichiaratamente ateo, è comunque il leader che ha portato i socialisti spagnoli (Psoe) al governo dopo anni di dominio del Partito Popolare, rappresentante del centrodestra.
Il 25 aprile Sánchez ha scritto una lettera alla cittadinanza per annunciare: “Mi fermo a riflettere, lunedì saprete se continuo o mi dimetto”. Furioso per un’inchiesta su sua moglie Begoña Gómez, imputata di presunto traffico di influenze e corruzione dopo una denuncia sporta da Manos Limpias, una organizzazione di ultradestra.
Il premier accusa: «Falsità. Una macchina del fango. una strategia di demolizione che va avanti da mesi: la destra e l’estrema destra non hanno accettato il risultato elettorale e hanno oltrepassato la linea del rispetto alla vita familiare di un premier.
«Sono un uomo profondamente innamorato di mia moglie che vive con impotenza il fango che le spargono addosso giorno dopo giorno».
A favore di Sánchez si è mobilitata una cordata di mass media in sintonia con il Psoe, da quotidiani come El Pais ed El Diario a giornalisti di primo piano della tv di Stato.
È stato redatto un “Manifesto in difesa di una democrazia decente”, con l’adesione di nomi come l’ex inviata di guerra Maruja Torres.
Il manifesto esorta a bloccare “la campagna di bufale, falsità e molestie dei media e della magistratura di estrema destra. No al colpo di Stato giudiziario e mediatico”. Con l’invito alla popolazione a scendere in piazza. In calle Ferraz a Madrid, davanti alla sede del Psoe, migliaia di militanti hanno urlato “Pedro, quédate. No estás solo!” e il classico «No pasarán». Lunedì 29 aprile, l’atto finale: Sánchez dirà «se ne vale ancora la pena».