Preghiera dell’Imam in Università a Torino: il Rettore Geuna chiamato da Roma a chiarire il caso
Dopo l’episodio scandaloso avvenuto settimana scorsa in università a Torino dove si è tenuto il rito islamico dell’Imam, il rettore Stefano Geuna è stato chiamato da Roma per chiarire l’accaduto.
Le parole del rettore
“Dialogo difficile perché il movimento non ha dei leader. Sono preoccupato per gli esami, spero che gli occupanti siano consapevoli dei danni che rischiano di fare ai loro colleghi”.
Rettore Stefano Geuna, è cambiata la natura dell’occupazione della sua università con l’episodio dell’imam e della preghiera di venerdì scorso?
«Io resto ottimista: mi sembra che le tensioni nelle Università si stiano stemperando e penso che la linea della pazienza e del dialogo stia pagando: le occupazioni si stanno riducendo. Certo l’episodio del sedicente imam non aiuta a rasserenare gli animi».
Quando ha saputo dell’episodio?
«L’ho saputo giovedì dai giornali, non era stato annunciato. E del resto gli studenti quando occupano organizzano attività diverse, incontri culturali e Dj set. Questa preghiera non era autorizzata ed è estranea al nostro modo di vedere e di considerare il ruolo laico dell’Università».
Ma come è stato possibile che nessuno abbia saputo nulla né prima né dopo: la situazione è fuori controllo?
«Sono settimane convulse, sono gli studenti che occupano che controllano chi entra e chi esce. Questo episodio è avvenuto dentro un androne, in un angolo. Discretamente il personale di vigilanza controlla soprattutto le condizioni di sicurezza, ma nessuno mi ha segnalato nulla, altrimenti avrei condannato l’accaduto prima».
Da Fratelli d’Italia le chiedono di sgomberare gli studenti.
«Noi abbiamo scelto la linea della pazienza e del dialogo, e sembra che abbia pagato. Proprio giovedì, quando è uscita la notizia della preghiera dell’iman, gli studenti avevano lasciato il rettorato dopo una settimana di occupazione».
In cambio del fatto che avete rinunciato a tenere la seduta del Senato accademico online e l’avete rimandata?
«No, c’è stata un’interlocuzione e gli studenti hanno accettato di lasciare il rettorato. Quanto alla riunione del Senato avevamo già deciso di riconvocarla tra dieci giorni per far passare questo periodo di tensione: non c’erano misure urgenti da approvare. Noi ascoltiamo gli studenti ma non prendiamo ordini da loro, questo deve essere chiaro. Noto invece che in questo momento c’è un indebolimento della protesta, sta calando il numero degli studenti coinvolti. Probabilmente alcuni si stanno rendendo conto che se l’occupazione va avanti a farne le spese saranno i loro colleghi che potrebbero avere disagi con gli esami».
Il caso dell’imam non fa intravedere un allentamento della tensione però. E’ vero che la ministra Bernini l’ha chiamata per convincerla a condannare l’accaduto?
«Ci siamo sentiti con la ministra, ma io avevo già deciso – una volta venuto a conoscenza dell’episodio – di condannarlo. Abbiamo concordato un’azione comune. Non è questione di chi ha chiesto a chi, ma di dire con nettezza che l’università non ha mai strizzato l’occhio alle richieste degli occupanti. Del resto l’occupazione non è autorizzata ma anche le richieste di boicottaggio degli studenti non sono accettabili: noi del resto non abbiamo mai interrotto i rapporti con le Università israeliane e mai lo faremo».
Torino è diventata uno dei centri più caldi delle proteste pro Palestina. Avete avuto l’occupazione del Senato accademico, poi del rettorato e ora di Palazzo Nuovo, la sede principale dell’Ateneo.
«Il contesto a Torino è effervescente: ci sono stati in passato diversi episodi di antagonismo e di tensioni sociali e poi i no Tav. Del resto prima del ’68, alla fine del ’67 Palazzo Campana, allora sede dell’Università di Torino, venne occupato».
Queste proteste sono paragonabili a quelle del ’68, secondo lei?
«In questo caso il dialogo è molto difficile perché non ci sono leader, è un movimento fluido, e dunque quando i miei delegati vanno a parlare con gli studenti, ogni volta trovano persone diverse. Quanto alle somiglianze con il ’68, allora la protesta fu traumatica ma portò all’apertura degli atenei e del dialogo con gli studenti, qui ho l’impressione che ci sia una parte che non vuole il dialogo ma soltanto imporre il suo punto di vista, in modo ricattatorio. E questo non lo accetteremo mai».
Lei esclude lo sgombero anche se questo volesse dire rinviare gli esami di giugno perché la sede di Palazzo Nuovo è inagibile?
«Nessuno ha la sfera di cristallo, ma io spero in una presa di coscienza degli studenti che protestano, almeno di una parte consistente di loro. Noi faremo di tutto per garantire a tutti gli studenti di poter dare gli esami ma certo potrebbero esserci problemi di spazio».
Quanti sono gli studenti che protestano?
«Non più di una sessantina».