Condannato l’ex d.g. della Sanità Lombarda a versare circa 175 mila euro, a causa della sua decisione di 15 anni fa su Eluana Englaro.
La Corte dei Conti, dopo più di 15 anni dalla morte di Eluana Englaro, ha condannato in appello l’ex d.g. della Sanità della Lombardia Carlo Lucchina, a pagare all’erario circa 175 mila euro. Identica somma era stata versata dalla Regione a Beppino Englaro, che era stato costretto a trasferire sua figlia (in coma vegetativo da oltre 17 anni), in una struttura sanitaria in Friuli, dove poi è deceduta.
Secondo la Corte dei Conti la decisione dell’ex d.g. è stata una «concezione personale ed etica del diritto alla salute» e ha impedito che ad Eluana fosse interrotto il trattamento che la manteneva in stato vegetativo. Infatti, la Regione Lombardia a suo tempo, aveva dovuto risarcire la stessa somma a Beppino Englaro, il quale era stato costretto a trasferire la ragazza in una struttura sanitaria in Friuli dove poi morì.
L’anno prima della morte di Eluana, suo padre si era visto negare la possibilità di interrompere l’alimentazione artificiale che teneva in vita la figlia proprio da Carlo Lucchina, nonostante nel 2007 la Cassazione, avesse stabilito «che ciascun individuo può rifiutare le cure alle quali è sottoposto se le ritiene insostenibili e degradanti.» Sulla scia di tale storica sentenza, nel 2008 la Corte d’appello di Milano aveva autorizzato la interruzione del trattamento.
Però, quando Beppino Englaro, come tutore, chiese di staccare il sondino con cui veniva alimentata la figlia, Lucchina firmò una nota che diceva che le strutture sanitarie «si occupano della cura dei pazienti, il che comprende la nutrizione, e di conseguenza i sanitari che l’avessero sospesa sarebbero venuti meno ai loro obblighi professionali». Englaro si rivolse al Tar che accolse la sua richiesta, ma la Regione non diede corso alla sentenza.
ENGLARO SCATENATO CONTRO LUCCHINA
Mentre il d.g. afferma che «Non è stata un’obiezione di coscienza, ma sono state applicate le direttive arrivate anche dell’avvocatura regionale», si riserva di valutare se ricorrere in Cassazione.
Di diverso avviso è Beppino Englaro che, alla notizia della condanna di Lucchina afferma: «Potevano evitare tutto ciò che hanno combinato, ora si rendono conto, è chiaro che hanno sbagliato e ne devono rispondere. Loro hanno ostacolato, io ho agito nella legalità, chi ha ostacolato se la vede ora. Sapevo di avere un diritto ed era chiaro che lo ostacolavano, tanto che sono dovuto uscire dalla Regione. Ora sono problemi loro, io giustizia me la sono dovuta fare da me, sempre nella legalità e nella società. Loro hanno commesso qualcosa che non dovevano commettere. Per me era tutto chiaro anche allora, li ho dovuti ignorare e andare per la mia strada».
HANNO TUTTI RAGIONE: MANCA UNA LEGGE SUL FINE VITA
La vicenda risale al 2009, fu molto dolorosa e molto partecipata dall’opinione pubblica, perché portò alla ribalta un tema attualissimo, quello del diritto all’eutanasia e del rifiuto dell’accanimento terapeutico, che più volte in Italia ha generato dibattiti ma non ha mai portato ad una legge chiara e univoca. Eluana Englaro morì a 39 anni nel 2009, dopo averne trascorsi ben 17 in stato vegetativo irreversibile in seguito a un incidente stradale. Prima ancora non possiamo non ricordare il caso di Piergiorgio Welby, che nel lontano 2006 morì a seguito del distacco del respiratore artificiale e previa somministrazione di sedativi, dopo che più volte aveva chiesto che venisse posto termine alla sua vita a causa del suo stato. (n.d.r. La moglie grande cattolica, chiese inutilmente funerali religiosi e la Chiesa, che normalmente è propensa a celebrarli anche ai peggiori criminali, glieli negò) 7 anni fa, invece, è toccato a DJ Fabo, con il suo personale sacrificio, accendere i riflettori su tali vicende e a Marco Cappato affrontare più volte le aule del tribunale colpevole di averlo accompagnato in Svizzera, dove l’eutanasia è legale.
Se da un lato ha assolutamente ragione Beppino Englaro, perché un amministratore locale non può disapplicare delle Sentenze Ufficiali, tradendo la volontà del malato, dall’altro lato capiamo anche l’amministratore. Infatti, in un Paese che si professa democratico e civile, non si può (dopo ben 14 anni) ricevere una sentenza di appello (opposta alla precedente, assolutamente assolutoria) che condanni una persona che, magari in buona fede, anche se sbagliando, ha ritenuto di tutelare il diritto all’esistenza. Per una volta noi di Dillinger siamo d’accordo con un autorevole esponente del PD che ha dichiarato al proposito: «Sono passati quindici anni da quella drammatica vicenda e ancora non c’è una legge che regoli il fine vita». Segno che anche l’orologio rotto, almeno due volte al giorno indica l’ora esatta.
Di Vincenzo Pezzarossa