In Italia nelle carceri vivono 61.140 detenuti per 46.982 posti disponibili. E il sovraffollamento, a livello nazionale, ha superato il 130%. Tra questa massa di delinquenti, i “dannati”. O i disperati, che non riescono nemmeno a dirlo perché sanno tre parole di italiano in croce. Persone che potrebbero andare agli arresti domiciliari ma non hanno né casa, né lavoro.
Il rapporto tra reclusi e capienza dei penitenziari è di oltre il 165% in Puglia, intorno al 151% in quelli della Basilicata e del 144% nelle carceri del Lazio. «Condizioni disumane», denunciano le associazioni. «Costretti a stare in cinque in celle da due con quaranta gradi», denunciano alcuni detenuti.
Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha annunciato di recente misure decise, per esempio trasferire i detenuti stranieri nelle carceri dei Paesi di provenienza o, sul territorio nazionale, nelle comunità, con un programma di recupero.
Ma questi dati, presentati in Senato dal Garante nazionale dei detenuti Felice Maurizio D’Ettore, contraddicono le buone intenzioni. E l’emergenza peggiora, le rivolte si susseguono così come i suicidi; notizia di qualche giorno fa, anche di un agente di polizia penitenziaria.
La normativa in vigore, al di là dei proclami, aprirebbe comunque vie d’uscita. Su 28.167 condannati a pene definitive o pene residue fino a tre anni di reclusione, 23.256 potrebbero accedere alle misure alternative.
Situazione di marginalità
«I requisiti non sono legati unicamente al percorso detentivo o alla pericolosità sociale», spiega il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasìa. «Serve una casa, un lavoro. Insomma, bisogna potersi mantenere. In molti, però, partono da una situazione di marginalità. Le misure alternative sono cresciute enormemente nel nostro Paese. Ma per utilizzarle bisognerebbe investire sull’esterno». Ovverosia progetti, comunità. Se in passato circa 211 detenuti al mese venivano messi ai domiciliari, ora questi sono scesi a 150.
Il 30% dei detenuti, in Italia, è in carcere su misura cautelare. «Il carcere resta la prima scelta, la soluzione principale», interviene l’avvocato Roberto Capra del foro di Torino, presidente della Camera Penale Vittorio Chiusano. E attacca: «Si fanno poche verifiche sulla possibilità di accedere ad altre misure cautelari e alle misure alternative. In un sistema in cui si continuano ad aggiungere reati su reati, è ovvio che poi si arriva al sovraffollamento e a situazioni ingestibili».
Carcere come extrema ratio
Ne sono prova le sommosse scoppiate dal nord al sud Italia. Nel 2023 erano state settantadue, da gennaio si contano novantanove episodi. Una decina solo nelle scorse settimane. Le carceri si incendiano. «Vogliamo farci sentire», dicevano i detenuti di Regina Coeli quando si sono rifiutati di rientrare in cella. Protestavano per «delle condizioni disumane, per il caldo, per la mancanza di igiene». Sono 1.115 in spazi pensati per 626 persone.
«Il carcere dovrebbe essere l’estrema ratio», è convinta la radicale Rita Bernardini, ex parlamentare. «All’anno, spendiamo tre miliardi e mezzo per il carcere e 500 milioni per l’esecuzione penale esterna». Cioé per tutto ciò che riguarda le misure alternative e per le misure di comunità. «Vuol dire che abbiamo fatto una scelta. Ed è carcerocentrica. Siamo in tanti a chiedere di mettere mano alle riforme, prevedere investimenti di bilancio, investire sul fuori». In Sicilia sono state create delle Comunità terapeutiche assistite. «Ci vanno anche persone che hanno problemi psichiatrici e che devono scontare pene brevi. Sono seguite da psicologi, educatori e così via».