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Il mago Velasco scampato alla dittatura argentina

Julio Velasco, allenatore dell'Italvolley - Fonte: Ipa - Dillingernews.it

«È stata un’Olimpiade straordinaria, abbiamo perso un solo set, credo sia un record». Spenti gli echi della cerimonia per la fine delle Olimpiadi, Julio Velasco è comprensibilmente euforico. È di certo un eroe nazionale, perché proprio nell’ultima giornata dei Giochi ha guidato alla vittoria la Nazionale femminile azzurra di volley. E contro un avversario agguerrito, gli Stati Uniti. Nella sua storia personale ci sono i desaparecidos, la dittatura argentina, i colpi di Stato. Leggiamo il suo racconto.

Velasco viene al mondo sul Rio de La Plata nel 1952, nell’Argentina di Juan Domingo ed Evita Peron. Suo padre è un agronomo peruviano che se ne va all’altro mondo quando il piccolo Julio ha soltanto sei anni; la madre, di origine inglese, insegna inglese agli argentini.

Ha due fratelli, Luis e Raul. Il suo Paese è preda di una rapida radicalizzazione, fino al colpo di Stato del generale Jorge Videla. Velasco lascia l’università di La Plata a sei esami dalla laurea in Filosofia per trasferirsi a Buenos Aires, dove, spiega, «era più facile passare inosservati».

Velasco ai tempi è un ex militante comunista e presidente del comitato studentesco. I suoi amici, uno dopo l’altro, spariscono nel nulla, sotto il pugno della giunta militare di Videla e dell’ammiraglio Eduardo Massera. Un’agghiacciante storia di squadroni della morte, che sequestrano gli studenti e gli attivisti considerati oppositori del regime, li concentrano in posti come l’Esma, la Scuola di meccanica della marina militare, li torturano, li mettono su un aereo e li fanno precipitare nell’Oceano.

Sono i desaparecidos: 30mila persone liquefatte nei gorghi del mare. Gli squadroni beccano anche Luis Velasco, rapito per due mesi e poi liberato dopo essere stato seviziato.

«Spaventoso e mai superato»

«Quando le forze militari entravano in casa», ricorda con amarezza Julio Velasco, «ti chiamavano per cognome e ti portavano via; per questo motivo non saprò mai se il bersaglio fossi stato io, che ero un militante dell’Università, o Luis. Fu qualcosa di così spaventoso dal punto di vista umano e morale che in realtà mai in famiglia abbiamo superato».

Il suo primo incarico da allenatore è con il Ferro Carril Oeste, la squadra del barrio Caballito, a Buenos Aires. Vince quattro campionati, diventa viceallenatore della nazionale, medaglia di bronzo ai mondiali del 1982, giocati in casa. Si trasferisce in Italia nel 1983, ingaggiato dalla Jesi, squadra appena promossa in A2.

Parigi. Velasco esulta con la sua squadra al termine del match contro gli Stati Uniti – Fonte: Ipa – Dillingernews.it

Fine psicologo

Da lì è tutta una strada in discesa. Velasco colleziona ori in tutto il mondo: 13 titoli di club, 18 con le nazionali. Arriva persino a lavorare nel calcio: è stato direttore generale della Lazio di Sergio Cragnotti e poi responsabile dell’area fisico-atletica all’Inter di Massimo Moratti, con Marcello Lippi in panchina. Una carriera perfetta con un unico neo: l’oro olimpico.

Prima della finale di Parigi, dice alle sue ragazze: «È un sogno, ma intanto abbiamo già l’argento assicurato. In Italia si vede sempre quello che non va, l’erba del vicino è sempre più verde. È un modo sbagliato di vedere le cose. Godiamoci quello che abbiamo». Psicologia raffinata ed efficace: Velasco non vuole mettere ansia alla squadra e la strategia premia. «Ancora ci dobbiamo rendere conto di quello che abbiamo fatto», sospira il megacoach.

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