Partito da Mosca, un missile ipersonico russo arriverebbe a colpire Milano in 11 minuti. Nell’immaginario collettivo degli italiani questa eventualità sembra altrettanto remota quanto un’invasione di extraterrestri.
Si presta molta più attenzione alla possibilità di un’Apocalisse climatica – spesso con un uso distorto e ideologico della scienza – che non al rischio di un’aggressione militare. Eppure si combatte una guerra in Europa da due anni e mezzo. La guerra è possibile, la guerra è in corso, c’è chi ne prepara attivamente altre.
I ritardi nella presa di coscienza provocano e aggravano altri ritardi: nella spesa pubblica per la nostra sicurezza; e anche nella spesa privata. Una parte del settore delle imprese non ha capito di essere ormai un bersaglio permanente per le nuove guerre ibride. Cyber-attacchi e sabotaggi di ogni genere sono all’ordine del giorno.
Colpire l’economia privata, oppure le utility o le infrastrutture pubbliche che la sorreggono, è uno dei modi con cui si combatte la guerra oggi. Dovrebbe scaturirne una cooperazione stretta e costante fra imprese private, forze armate, intelligence: ma questo accade raramente. La classe dirigente italiana è una delle più distratte o disinformate su questo terreno.
A questi temi è dedicato uno studio di The European House – Ambrosetti che presento oggi al Forum di Villa d’Este. Ho collaborato a questo studio, considero questi temi della massima importanza per il nostro paese, e quindi ve ne offro qui una mia sintesi personale.
Guerre asimmetriche, l’aggressore in vantaggio
Ho cominciato dall’esempio del missile ipersonico perché quest’arma è già stata usata dalla Russia. Anche la Cina la possiede. La Nato e la stessa America sono in ritardo su questo terreno, ivi compreso nel predisporre adeguate difese anti-missilistiche. A proposito di difesa, una lezione ci viene da un altro conflitto vicino, quello del Medio Oriente. Il generale americano Mark Milley, che è stato capo di stato maggiore fino a un anno fa, in un recente saggio sulla rivista Foreign Affairs ha rievocato l’attacco di droni e missili che l’Iran ha lanciato contro Israele ad aprile. In apparenza quell’attacco si è saldato con un insuccesso. Israele, con un aiuto sostanziale da alleati o cripto-alleati tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Arabia saudita e Giordania, ha intercettato e distrutto la quasi totalità dei missili e droni, limitando al minimo i danni. Il generale Milley però attira l’attenzione su un dato economico inquietante.
«Anche quando i sistemi di difesa prevalgono, il costo di difendersi da uno sciame supera in modo spropositato il costo dell’attacco sostenuto dal nemico. L’offensiva dell’Iran in aprile costò al massimo 100 milioni di dollari, mentre le intercettazioni da parte di Stati Uniti e Israele vennero a costare più di due miliardi. Il basso costo di armi come i droni renderà sempre più facili le aggressioni, aumentando il potere di attori non tradizionali e relativamente poveri». Cioè esattamente quel tipo di “attori” ostili all’Occidente, come le milizie jihadiste. Il paragone fatto dal generale Milley si può estendere a quel che accade nel Mar Rosso, cioè al paragone fra quanto spendono gli Houthi per i loro attacchi alle navi mercantili (anche italiane), e quel che costa all’Occidente il dispiegamento di flotte militari in missione difensiva; più i costi sostenuti dalle compagnie di navigazione per mercenari privati a bordo, il rincaro delle loro polizze assicurative, eccetera.
Cooperazione pubblico-privato: troppo spesso resta un’eccezione
Il Mar Rosso è un teatro istruttivo, per almeno due ragioni: ci ricorda che certi nemici prendono di mira la nostra economia più di quanto prendano di mira le nostre caserme o basi aeree; e conferma lo squilibrio economico tra attacco e difesa nelle nuove guerre ibride o asimmetriche. Però il Mar Rosso è un caso “virtuoso” di cooperazione tra forze armate e imprese private; non sempre funziona così.
Restando sul terreno militare, lo studio TEHA-Ambrosetti ricorda la pesantezza dei nostri programmi di sviluppo di nuovi sistemi di difesa. Vent’anni in media. E quel “nostri” si applica anche agli Stati Uniti, dove ancora un ruolo dominante viene svolto dai “dinosauri” dell’industria bellica come Boeing e Lockheed, che hanno una cultura conservatrice, molto distante da quella della Silicon Valley, ma hanno sviluppato una simbiosi con il Pentagono che non riesce a fare a meno di loro.
Fragilità delle imprese
Passando al settore privato, di recente abbiamo avuto l’ennesima riprova della sua vulnerabilità quando un aggiornamento sbagliato dei software Microsoft ha paralizzato aeroporti e altre attività in molti paesi occidentali. In questo caso non c’entravano hacker russi o cinesi o iraniani, bensì un clamoroso errore di una società privata, la Crowdstrike. Ma di sicuro quel caos è stato studiato con attenzione dai nostri nemici, ha offerto loro nuove idee. Gli attacchi di hacker stranieri a infrastrutture energetiche, sanitarie e di trasporto sono in atto già da molti anni. Ci danneggiano costantemente, e inoltre sono «prove generali» per paralizzarci in caso di guerra vera e propria.
Le imprese private spendono molto per difendersi ma non pubblicizzano gli eventi per preservare la propria reputazione; questo riduce la collaborazione fra privati, e tra loro e gli apparati di sicurezza nazionale. Questo è vero in tutto l’Occidente, ma l’Italia ha una vulnerabilità in più: un capitalismo dominato dalle piccole imprese, che hanno meno mezzi per difendersi rispetto alle grandi e grandissime.
Guerra e tecnologia, l’Europa digitale un nano fra i giganti
Un’altra debolezza italiana invece è un problema comune a tutta l’Europa. Oggi la difesa è affidata in larga parte a nuove tecnologie. E in questi settori il ritardo italiano/europeo è preoccupante. La componente tecnologica nelle piattaforme di difesa ormai ha un peso che va dal 40% al 55%. Inoltre una parte della guerra, o della «preparazione alla guerra», oggi si svolge sotto forma di spionaggio industriale e furti di tecnologie. Ma sulle dieci aziende tecnologiche mondiali a maggiore capitalizzazione, otto sono americane, una è taiwanese, una sudcoreana. In un decennio la quota UE nel settore dell’Information and Communication Technology è scesa dal 22% all’11% cioè ha dimezzato il suo peso nel mondo.
Questo dato è tanto più inquietante alla luce dell’evoluzione politica negli Stati Uniti: dove le correnti isolazioniste non si limitano al partito repubblicano di Donald Trump ma si sono rafforzate anche a sinistra. Certo una vittoria di Kamala Harris il 5 novembre ridurrebbe i rischi di crisi della Nato; gli elementi di continuità rispetto all’Amministrazione Biden sarebbero prevalenti. Tuttavia il riequilibrio dell’attenzione strategica dell’America verso la Cina è inevitabile nel lungo termine.
Difesa europea, un ritardo grave
La questione della difesa europea non può continuare ad essere elusa. Eppure la spesa totale per la sicurezza, misurata in proporzione al Pil, continua a vedere l’Unione europea molto indietro rispetto a tutti gli altri: America, Cina, Russia.
Se dal 2006 al 2023 tutti gli Stati membri avessero speso il 2% del PIL per la difesa, sarebbero stati disponibili 1.340 miliardi di euro aggiuntivi. L’Europa inoltre è pericolosamente dipendente da altri anche per i suoi acquisti di armamenti: compra addirittura il 78% delle attrezzature addizionali per la difesa da paesi extra-Ue.
«Social acceptance»: un deficit di consenso
Dietro le questioni economiche e tecnologiche si affaccia il tema decisivo: il consenso dei cittadini. I gravi ritardi europei si spiegano anche perché le opinioni pubbliche sono inconsapevoli, disinformate, o perfino ideologicamente avverse a una presa di responsabilità. Pesano 70 anni di parassitismo in cui la sicurezza europea è stata garantita dagli americani, creando l’aspettativa che questa situazione innaturale e insostenibile sia la normalità e possa durare in eterno. Pesano dogmi e dottrine che dietro l’apparenza del pacifismo spesso nascondono antiamericanismo, russofilia, simpatia per autocrati e despoti come Putin e Xi Jinping.
L’opinione pubblica italiana è una delle più arretrate e immature. Il ritardo italiano è ancora peggiore Alla domanda su quanto sia prioritaria la costruzione di una difesa europea, in certi paesi risponde positivamente la maggioranza dei cittadini: tra questi spiccano soprattutto i paesi più vicini alla Russia (Danimarca Romania Germania Finlandia Polonia, in quest’ordine). L’Italia è molto distante, in fondo alla classifica: solo il 36% degli intervistati assegna priorità alla difesa dell’Europa. Peggio dell’Italia ci sono solo un paese neutrale come l’Austria, e un satellite di Putin come l’Ungheria.Lavorare sull’opinione pubblica italiana è un compito essenziale e urgente. Il paese non arriverà a livelli adeguati di investimento nella propria sicurezza, se i cittadini pensano di non averne bisogno. C’è un vuoto culturale pauroso, che viene riempito da ideologie pseudo-pacifiste o da un’errata percezione che l’imperialismo russo o il jihadismo «non ci riguardano, non ce l’hanno con noi».