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Mentre Mosca dà asilo politico ad Assad, si profilano i nuovi scenari in Medio Oriente

Vladimir Putin ha concesso asilo politico in Russia a Bashar al-Assad - Fonte: Ipa - Dillingernews.it

Nelle ore concitate della presa di Damasco, tutti si sono domandati dove fosse Assad e si è fatta anche l’ipotesi che i ribelli jihadisti fossero riusciti ad abbattere il suo aereo in volo verso Mosca. Ora, la conferma ufficiale: il tiranno è in Russia.

Lo riporta la Tass, agenzia ufficiale di stampa: “Il deposto presidente siriano è arrivato a Mosca con i familiari e la Russia ha concesso loro asilo. Si è dimesso dal suo incarico da presidente”. 

Nella notte a Damasco si sono udite sparatorie e le forze di sicurezza del Paese hanno lasciato l’aeroporto della capitale. Hezbollah ha ritirato le sue forze dai dintorni della città e da Homs, dove sono avvampati aspri scontri. Per ribaltare il quadro politico mediorientale, agli invasori sono bastati dieci giorni.  

Il leader di Hayat Tahrir al-Sham, Abu Mohammed al-Jolani, dichiara alla Tv di stato siriana «Il futuro è nostro. La caduta del regime è una vittoria per la nazione islamica. Questo nuovo trionfo, fratelli miei, segna un nuovo capitolo nella storia della regione».

Joe Biden applaude: «Finalmente il regime di Assad è caduto. Questa è un’opportunità storica per il popolo siriano. Assad deve essere portato davanti alla giustizia e punito». Qualcuno, rivangando la Guerra del Golfo, storpia il suo nome in “Assad Hussein”.

Il piano B con la Libia

La rivolta in Siria è una cocente sconfitta per la Russia e l’Iran, legato a Damasco dall’Asse della Resistenza in appoggio ad Assad, agli Hezbollah e ai Pasdaran. Lo scudo si è sbriciolato e si prefigura una tensione rovente sul campo. Mosca considerava la Siria un avamposto per i propri interessi nell’area, ora pare guardi alla Libia per trovare un’alternativa.

Per la Turchia di Erdogan, che ha sostenuto i jihadisti, è una mezza vittoria, perché nell’avanzata verso Damasco hanno pesato anche i curdi, nemici storici di Ankara, alleati degli Usa e componente solida nel melting pot delle etnie siriane (alawiti, sunniti, sciiti, drusi e cristiani). Se dovessero venire a patti con il Pkk, organizzazione curda antiregime, Erdogan avrebbe un serio problema da affrontare.

L’ambivalenza di Israele

Israele è diviso, da una parte favorito dalla crisi in Siria per il duro colpo ai suoi nemici Hezbollah e Iran. Dall’altra, sul chi va là per possibili minacce jihadiste sul confine orientale.

Poi c’è l’incognita delle armi chimiche in dotazione ai lealisti e la preoccupazione per chi potrebbe prenderne in controllo. I segnali di apertura a una transizione pacifica che lancia Jolani sembrano incoraggianti.

Donald Trump ha una trentina di giorni per prendere definitivamente il controllo della Casa Bianca e della politica estera. Il cerino a quel punto sarà in mano sua e, se non si muoverà in fretta, rischia di bruciarsi le dita.

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