Cecilia Sala in cella dorme per terra. Se riesce a prendere sonno, perché il regime islamico di Teheran impone la regola delle luci al neon accese 24 ore su 24 nelle carceri. Non merita un letto, per i suoi aguzzini: solo due coperte che in un istituto di pena come quello di Evin, dove è imprigionata, non equivalgono nemmeno a pannicelli caldi. Perché, come testimoniano ex detenute, fa un freddo cane. Le hanno persino sequestrato gli occhiali da vista.
La giornalista ha potuto solo fare un paio di telefonate alla famiglia e al compagno Daniele Raineri, che è anche un collega. Sorvegliata a vista e certamente ben poco libera di parlare, esattamente come nell’unica visita ricevuta in 14 giorni di totale isolamento. Quando l’ambasciatrice Paola Amadei l’ha incontrata per 30 minuti, in presenza dei carcerieri che le hanno costrette a parlare in inglese per poter capire la loro conversazione.
Il pacco era un pacco
La diplomatica le ha portato un pacco con alcuni dolci, libri e beni di prima necessità. Sigarette, un panettone, maglioni, una mascherina per proteggersi dalla luce. Non ha mai ricevuto niente. Non vede nessuno, sia perché le guardie le passano il cibo (prevalentemente datteri) da una fessura nella porta, sia perché è priva dei suoi occhiali.
«Tratteremo la reporter italiana in modo dignitoso», avevano promesso le autorità al momento dell’arresto. Mentivano sapendo di mentire. In due settimane la magistratura iraniana non ha saputo tirar fuori altro capo d’accusa che una fumosa “violazione delle leggi della Repubblica islamica”, ovvero tutto e il contrario di tutto.
L’ex detenuta: “Non avevo nulla”
Elahe Ejbari, studentessa iraniana fuggita in Germania e detenuta tre mesi a Evin in isolamento, ha spiegato l’orrore di Evin al Corriere della Sera: «Nella mia cella singola non c’era il materasso, né il cuscino, ma solo due coperte. Morivo di freddo. Non c’erano finestre. Non avevo libri, penne, nulla. Se dovevo andare in bagno, bussavo alla porta. Le guardie non arrivavano mai. A volte ho aspettato ore. Cercavo di stare vigile e non perdere la lucidità».
Cecilia Sala patisce lo stesso trattamento: «Lo sapevo, le autorità iraniane non fanno favori. Non dovete fidarvi delle loro parole. È la loro strategia. Esercitano una pressione sempre maggiore per ottenere quello che vogliono. In questo caso la liberazione di Abedini. Vedrete che la porteranno nel reparto femminile del carcere, dove sicuramente le attiviste iraniane diventeranno sue amiche e la guideranno nell’inferno di Evin».
C’è chi paragona la sorte infame di Cecilia a quella di Mohammad Abedini-Najafabadi, l’ingegnere iraniano esperto di droni detenuto in Italia dal 16 dicembre, con richiesta di estradizione negli Stati Uniti. Con buona pace di un giornalista che sostiene: «Sala è nei guai per causa sua», Abedini ha un materasso, delle coperte, dei libri, dei vestiti, contatti umani e ha appena ricevuto un tablet. Ha l’opportunità di un sistema giudiziario che gli dovrebbe garantire un trattamento equo, secondo le leggi del diritto internazionale.
Secondo l’articolo 38 della Costituzione iraniana, l’isolamento non è consentito né dalla legge statale, né da quella religiosa. Precisamente: «Sono vietati qualsiasi tipo di tortura, estorsione di confessioni o acquisizione di informazioni, costrizione degli individui a testimoniare, giuramenti forzati. Queste prove mancano di credibilità». Lettera morta nel penitenziario di Evin, fondato dallo Scià.
“Il caso Sala è il caso Italia”
Cecilia Sala è una delle urgenze sottolineate dal presidente Sergio Mattarella nel suo messaggio di fine anno. Il governo italiano ha chiesto «garanzie totali sulle condizioni di detenzione e la sua liberazione immediata. I tempi e le modalità di detenzione saranno un’indicazione univoca delle reali intenzioni e dell’atteggiamento del sistema iraniano nei confronti della Repubblica italiana. Il caso Sala è il caso Italia. Quello che accade alla nostra giornalista in carcere è quello che l’Iran fa agli italiani».