I diari segreti di Matteo Messina Denaro, venuti alla luce dopo il suo arresto, sono un documento esclusivo che riporta Repubblica, una finestra spalancata su tredici anni di pensieri, confessioni e autocelebrazioni del boss mafioso, scritti tra il 2003 e il 2016. Due quaderni rigidi, illustrati con stampe di Van Gogh, che svelano il lato più personale – ma mai troppo vulnerabile – di uno dei protagonisti più inquietanti di Cosa nostra, insieme alla sua straordinaria abilità nel manipolare chiunque gli gravitasse intorno.
Cosa c’è nei diari di Messina Denaro
La scrittura è chiara, uno stampatello che pare progettato per essere letto. I temi? Intimi, privati, lontani dalle inchieste che lo hanno inseguito per anni. Il destinatario designato di questi appunti è la figlia Lorenza, mai incontrata per 27 anni. Ma non aspettatevi la narrazione di un padre pentito: questo è il monologo di un uomo abituato a dettare le regole. Lorenza è il fulcro di gran parte delle sue riflessioni, ma il rapporto immaginato con lei è quello di un patriarca vecchio stampo: autoritario, patriarcale, ossessionato dal controllo.
Tra le pagine dei “libricini”, come li chiamava lui, si snoda un flusso di coscienza caotico ma calcolato, un fiume di parole che lascia intravedere, ogni tanto, qualche frammento di verità. Messina Denaro si rivolge a Lorenza spiegandole che il loro destino è scritto nel DNA, definendo i loro geni “giocattoli difettosi” e proponendo una narrazione in cui la sua eredità mafiosa diventa inevitabile. Eppure, quando il boss parla di sua figlia, il tono cambia: il manipolatore sicuro di sé lascia il posto a un uomo tormentato. Lì emerge il dubbio, quel tarlo che non lo ha mai scalfito nei suoi anni di crimini e violenze.
Le parole verso la figlia
Nei diari, la figlia è la variabile che manda in tilt il suo sistema. Lorenza, che non lo ha mai voluto incontrare fino all’arresto, è la figura che riesce a piegarlo, almeno in parte, imponendogli un confronto che nessun avversario, Stato compreso, era mai riuscito a vincere. Il boss tenta di irretirla con lo stesso fascino oscuro che ha usato per costruire il suo potere, ma con lei fallisce. Eppure, anche in questo fallimento, c’è l’ombra del narcisismo: Messina Denaro insiste nel ricordarle che solo lui può raccontarle “la verità” sulla sua vita, e lo fa con uno stile che mescola filosofia spicciola e retorica da bullo.
Tra riflessioni, citazioni e pensieri sparsi, il diario è un ritratto del boss che si costruisce un mito da consegnare a Lorenza e, forse, a se stesso. Non c’è una coerenza narrativa, tutto è frammentato e volutamente disordinato, perché così i pensieri sembrano più autentici, le emozioni più vere. Eppure, dietro quell’apparente spontaneità, c’è un’abilità studiata: confondere, mescolare vero e falso fino a renderli indistinguibili. È la stessa tattica che avrebbe reso Messina Denaro un polemista brillante, se solo avesse scelto i salotti televisivi invece della latitanza.
A due anni dall’arresto, quei diari non raccontano solo Lorenza. Raccontano anche il rapporto di Messina Denaro con il padre, le amanti, le sorelle, le armi, l’onore, la religione, la vendetta. E, naturalmente, la sua ossessione per l’immagine: il narcisismo del boss emerge anche nelle lamentele sugli identikit che lo dipingevano vecchio e brutto, a cui ha risposto inserendo nei diari foto di sé stesso, in posa, davanti all’Arena di Verona. Un tentativo disperato di controllare la narrativa, di lasciare un’immagine diversa da quella che gli ha costruito lo Stato.