Quasi per una crudele legge del contrappasso, la marcia dei palestinesi verso il nord della Striscia di Gaza nasconde una venatura escatologica. Ribaltando il passaggio del Mar Rosso, con Mosé e il suo bastone che divisero le acque per l’affrancamento degli israeliti dalla schiavitù subita dall’Egitto, ora è un fiume di musulmani ad attraversare il “Corridoio”: una spaccatura larga quattro chilometri che ha diviso in due la Striscia in tempo di guerra.
Quindici mesi dopo lo sfollamento, centinaia di migliaia di persone a piedi, a dorso di mulo o a bordo di catorci a quattro ruote raggiungono quel che fu la loro vita e ora è solo macerie. Riabbracciano parenti e amici, confusi dalla scomparsa delle botteghe di paese, fornai, fruttivendoli e così via, spazzati via dai bombardamenti.
L’ostaggio da liberare
Si stima che siano stati 1,3 milioni di abitanti a fuggire per schiacciarsi presso il confine con l’Egitto. Il loro controesodo era in partenza sabato 25 gennaio ma Netanyahu ha congelato tutto in attesa di rassicurazioni da Hamas che Arbel Yehud, ostaggio civile, fosse ancora viva e prossima alla liberazione. Entro 48 ore l’ostacolo è stato rimosso, Arbel tornerà in Israele venerdì 31 gennaio.
Per gli analisti si tratta di un test su quello che Netanyahu aveva sempre scongiurato. Il Nord della Striscia era preteso e reclamato da oltranzisti e messianici, per ricostruire le colonie. «Non ce ne andremo mai più», dice Osama che sta rientrando a Gaza City. «Mandino pure un carrarmato per ognuno di noi».