
Le cronache di guerra da mesi sono monopolizzate dai fronti dell’Ucraina e della Striscia di Gaza, incomprensibilmente trascurando i fiumi di sangue e le inaudite barbarie sulle donne riportate da pochi media, invece, attenti al dramma del Congo. Incendi, evasioni di massa, migliaia di morti.
A Goma è scoppiata una rivolta carceraria con evasione di massa, ma prima i miliziani ribelli hanno stuprato e poi bruciato vive povere donne nell’incendio della prigione. La guerra civile nell’est della Repubblica democratica del Congo infuoca questo Paese al centro dell’Africa meridionale da tre anni, un ulteriore inspiegabile fattore che dovrebbe focalizzare l’attenzione della stampa: lo stesso Enrico Mentana, aprendo il suo TgLa7 circa una settimana fa, ha ammesso che la testata ha «colpevomente trascurato» il recente infiammarsi del conflitto.
Secondo un rapporto dell’Onu appena pubblicato, sono 2.900 i morti solo negli scontri per la conquista di Goma, mentre il conflitto, dopo la violazione di una fragilissima tregua, si sta estendendo nel sud Kivu, nell’est della Repubblica democratica del Congo.
La guerra del cobalto
Gli stupri e il rogo risalgono alla settimana scorsa ma sono emersi più chiaramente proprio mentre i ribelli del gruppo M23 – appoggiato dal confinante Ruanda con chiare mire sul possesso di terre rare e altri minerali critici indispensabili per le moderne tecnologie come cobalto e coltan – hanno smentito coi fatti un proprio annuncio di tregua umanitaria fatto martedì. «C’è stata un’evasione di massa con 4.000 detenuti fuggiti. In quella prigione c’erano anche alcune centinaia di donne. Tutte sono state stuprate, poi è stato incendiato il settore femminile. Sono tutte morte».
Questa la sintetica descrizione degli eventi risalenti alla mattina del 27 gennaio fatta da Vivian van de Perre, la vicecapo della Monusco, la Missione Onu in Congo. Molto di più, e di attendibile, per ora era difficile da apprendere dato che, nonostante la presenza di migliaia di caschi blu dell’Onu, le restrizioni imposte dai ribelli hanno impedito alle squadre di soccorso di accedere al carcere, per raccogliere prove e stabilire con certezza chi siano i responsabili della strage perpetrata nella città da oltre un milione di abitanti finita sotto il controllo dei miliziani di M23.
Proprio questa settimana l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (Ohchr) aveva avvertito che la violenza sessuale viene usata come arma di guerra dai gruppi armati a Goma. Secondo fonti umanitarie e di sicurezza, le milizie del “Movimento del 23 marzo” (M23) e le truppe ruandesi hanno lanciato all’alba una nuova offensiva contro le forze armate congolesi conquistando la città mineraria di Nyabibwe, nella provincia del Sud Kivu. “Questa è la prova che il cessate il fuoco unilaterale, come al solito, era solo un diversivo”, un illusorio “inganno”, ha dichiarato il portavoce del governo congolese.
Tregue mai rispettate
Già una mezza dozzina di cessate il fuoco e tregue concordate tra le due parti non erano mai state rispettate in questo conflitto innescato dalla “ribellione M23” del 2012-2013 e ricominciato nel 2022 provocando migliaia di morti (almeno 900, con circa 2.880 feriti solo tra il 26 e il 30 gennaio secondo una stima Onu) e una crisi umanitaria con centinaia di migliaia di sfollati.
Per tentare di arginare la crisi, che rischia di tracimare in un conflitto regionale, il presidente congolese Felix Tshisekedi e quello ruandese Paul Kagame restano comunque attesi sabato a un vertice straordinario della Comunità degli Stati dell’Africa Orientale (Eac) e della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (Sadc) a Dar es Salaam.