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Lo studio in centro, lo scaldino, le infezioni: l’incubo chirurgico di Simonetta, deceduta per una liposuzione

Altro che sala operatoria. In via Firenze, a due passi da via Nazionale, nel cuore elegante e istituzionale di Roma, c’era una clinica travestita da ambulatorio, un set chirurgico improvvisato in un palazzo storico, dove accanto a uno scaldino da salotto e a scaffali di protesi in bella vista, il chirurgo estetico Carlo Bravi – oggi 73 anni – prometteva seni perfetti e corpi scolpiti. Il tutto alimentato dal passaparola riconoscente di signore già operate. Alcune, però, miracolate. Altre no. Come Simonetta Kalfus, 62 anni, morta 12 giorni dopo una liposuzione. E come Pamela Maggi, che invece è sopravvissuta, ma solo per raccontare l’inferno.

I precedenti giudiziari del medico che ha operato Simonetta

Bravi era già stato condannato in primo grado a un anno di carcere per un intervento disastroso eseguito proprio sulla Maggi. Un lifting al seno trasformato in una mastoplastica additiva maldestra e pericolosa. Il 27 novembre 2017, la donna si presenta nello studio con sua madre e suo marito. Entra in sala operatoria, nota uno scaldino da casa: “Mi è sembrato tutto molto strano”, racconterà poi. Ma Bravi la rassicura: “Tranquilla, massimo cinquanta minuti”. Quando esce dalla sala, ha il camice sporco di sangue e dice ai parenti che “ha reciso un muscolo”, che c’è stata “una piccola emorragia”. Nulla di grave, assicura. Talmente nulla che la porta lui stesso a casa in macchina, dopo averla caricata in braccio insieme al marito.

Il giorno dopo Pamela è immobilizzata a letto. Non riesce ad alzarsi, ha dolori lancinanti, febbre alta, sente puzza di infezione. Bravi, chiamato più volte, minimizza: “Datele acqua e zucchero”. Quando finalmente lei riesce a fargli vedere una foto in cui dal capezzolo fuoriesce del liquido scuro, lui smette di rispondere. Sarà il medico di base, preoccupato, a farla ricoverare d’urgenza al policlinico Umberto I: codice giallo, infezione in corso, danni evidenti.

Nel frattempo Bravi, secondo i periti della procura, aveva già firmato la sua condanna. Aveva promesso un lifting, aveva eseguito un intervento diverso, con risultati “grotteschi e innaturali”, come scriverà il consulente nominato dalla pm Eleonora Fini. Non solo: post operatorio gestito con negligenza, cartelle cliniche lacunose, nessun ricovero dopo l’intervento. Il giudice parlerà di “condotta gravemente colposa” e lo condannerà a un anno, pena sospesa. L’Ordine dei medici, però, ancora tace. La Commissione che dovrebbe pronunciarsi è paralizzata da mesi.

E poi, il 6 marzo scorso, l’ultimo caso: Simonetta Kalfus. Bravi la opera nel suo studio, ancora una volta. Una liposuzione che non doveva esserci. Un intervento che si rivelerà fatale. Dopo dodici giorni di agonia e un ricovero tardivo, Simonetta muore: sepsi, infezioni diffuse in tutto il corpo. L’autopsia conferma. I carabinieri sequestrano le cartelle, il cellulare, lo studio. E adesso bisognerà rispondere a una domanda cruciale: quella “sala operatoria” era davvero a norma? O era, ancora una volta, un teatro dell’orrore?

Per Simonetta, come per tante altre, è tardi. E l’ennesima tragedia dimostra che il confine tra medicina e improvvisazione non è solo pericoloso. È letale.

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