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“Segreto di Stato? Ora basta”: Renzi canta vittoria dopo la mossa di Meloni sull’incontro all’Autogrill, ma la realtà è un’altra

Sei parole scritte a mano da Giorgia Meloni — “do il mio mandato a procedere”, firmate con una sola iniziale: “G.” — bastano a far esultare Matteo Renzi. L’ex premier vede in quella nota una sorta di spartiacque. Una vittoria simbolica e insieme politica: “Finalmente capiremo chi dice bugie e chi racconta la verità”, ha dichiarato, convinto che la premier abbia deciso di rimuovere il segreto di Stato sull’incontro all’Autogrill di Fiano Romano, avvenuto il 23 dicembre 2020, tra lui e Marco Mancini, all’epoca dirigente dell’intelligence. Un incontro filmato da una donna con un cellulare e poi trasmesso da Report su Rai 3. Da lì, un caso politico-giudiziario durato quattro anni.

Cosa c’è dietro la frase di Renzi

Eppure, dietro l’enfasi renziana si cela una realtà molto meno netta. Perché, in verità, sulla “vicenda Autogrill” in senso stretto non pendeva alcun segreto. A dirlo — con atti, non opinioni — è la stessa inchiesta della Procura di Roma, che ha già chiesto l’archiviazione del fascicolo a carico della professoressa romana che filmò la scena. L’accusa era “diffusione di riprese e registrazioni fraudolente”, ma per la magistratura non c’era alcuna volontà di danneggiare Renzi: la donna si era trovata lì per caso, incuriosita dalla presenza dell’allora senatore e di un uomo sconosciuto, anche lui accompagnato da scorta. Nessun complotto, nessun dossieraggio.

Il punto, semmai, è che la procura ha chiuso quel capitolo. Ma Renzi ha continuato a insistere. Dopo l’archiviazione, ha presentato un’altra denuncia contro ignoti, sempre legata a quanto accaduto in quell’area di servizio. Ma anche in questo secondo procedimento il pm ha chiesto di archiviare. Stavolta, però, Renzi si è opposto, e il prossimo 21 maggio si discuterà la questione davanti a un giudice.

Intanto esiste un terzo fascicolo, quello aperto in seguito alla denuncia per diffamazione e violazione di segreto presentata da Mancini contro i giornalisti di Report. È in quel contesto che emerge, finalmente, il tanto evocato segreto di Stato. Un segreto che non riguarda né Renzi né l’incontro all’Autogrill, ma questioni molto più interne al mondo dell’intelligence.

L’epoca di Elisabetta Belloni

Lo scrive nero su bianco il pubblico ministero: Elisabetta Belloni, all’epoca direttrice del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis), si rifiutò di rispondere in aula su alcune domande cruciali. In particolare, su eventuali accertamenti condotti dal suo ufficio per identificare la fonte indicata come ex Sismi — il vecchio servizio segreto militare — e sulle specifiche mansioni di Marco Mancini e della struttura a cui era preposto. Il segreto di Stato, scrive il pm, era stato imposto “per evitare di fornire informazioni che potessero anche indirettamente disvelare aspetti interni sul funzionamento dei Servizi”. Il tutto confermato formalmente anche dall’allora presidente del Consiglio Mario Draghi.

Quindi no, il segreto non copre l’incontro, ma una serie di informazioni sensibili relative a nomi, funzioni, strutture, protocolli. Ed è lì che, forse, Meloni ha deciso di aprire uno spiraglio. Un gesto simbolico, forse mirato, con cui il governo potrebbe scegliere di rendere pubblici alcuni dettagli non più ritenuti strategici: ad esempio, l’identità dell’ex funzionario del Sismi — già noto, già in pensione — o il ruolo ricoperto da Mancini prima dell’uscita di scena nel 2021.

È una mossa che potrebbe spegnere il caso o, paradossalmente, riaccenderlo. Perché se davvero si rimuove il segreto su alcuni punti, si crea un precedente: la possibilità che, anche su altre vicende più recenti e molto più sensibili, quel “muro” dell’intoccabilità dei Servizi possa iniziare a incrinarsi. E qui si apre un’altra partita: quella sull’uso dello spyware israeliano Paragon, sul monitoraggio di giornalisti e attivisti, su attività coperte che oggi agitano il dibattito pubblico e il nervosismo nei palazzi del potere.

È forse anche per questo che Renzi, nella lettera con cui ha svelato la “promessa” della premier, ha infilato anche quei riferimenti. Per dire che l’Autogrill è solo l’inizio. Perché dietro quell’auto blu in sosta e quelle immagini rubate, il vero duello si gioca sulla gestione del segreto come strumento politico. E Meloni, con sei parole scritte a penna, potrebbe aver appena aperto la scatola nera.

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