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Altro che decreto sicurezza. Qui il vero pericolo è il racconto che lo accompagna.

Con il solito lessico anestetico da ufficio stampa, il governo ha varato un pacchetto di misure che — sulla carta — punta a rafforzare l’ordine pubblico. Ma in controluce, tra le pieghe burocratiche delle parole, si intravede un’intenzione ben meno rassicurante: criminalizzare il dissenso, mettere l’elmetto alle piazze, dare in appalto alla paura il controllo della società.

Il decreto sicurezza — chiamarlo così è già una mossa semantica — si presenta come risposta a un’esigenza sociale. Ma quale? Dove sarebbe questa emergenza tale da giustificare la stretta repressiva? Dove sono le piazze in fiamme, le vetrine sfondate, gli assalti all’ordine pubblico? L’Associazione Nazionale Magistrati, che non è il collettivo anarchico di un centro sociale, ha usato parole maiuscole: «Il decreto porta con sé un messaggio inquietante».

Parole forti, rarissime, dette da chi ha come mestiere la compostezza. Il segretario generale dell’ANM, Rocco Maruotti, ha spiegato con chirurgica calma che non esiste alcuna emergenza oggettiva da affrontare. L’allarme è un costrutto. Creato in laboratorio, come un virus, e diffuso a colpi di conferenze stampa, veline, editoriali allineati. Il solito racconto: l’Italia sull’orlo del caos. Ma la realtà è una piazza tranquilla e una politica in cerca di nemici.

Il sospetto — che ormai è quasi certezza — è che il decreto non serva a risolvere un problema, ma a prevenire un futuro dissenso. A blindare la protesta prima ancora che nasca. Un tipo di censura nuova, preventiva, pre-crimine. Non si reprime ciò che accade: si reprime ciò che potrebbe accadere. Non si arrestano i colpevoli: si dissuadono i potenziali arrabbiati. È Minority Report, versione italica, ma senza Tom Cruise: qui ci sono i manganelli.

La strategia è chiara: trasformare il conflitto sociale in un problema di ordine pubblico. Come se chi protesta fosse di per sé pericoloso, come se il dissenso fosse un virus, come se lo Stato potesse vaccinarsi contro la democrazia.

Tutto questo si inserisce in una retorica securitaria che è ormai bipartisan, condivisa, digerita. La destra la cavalca, la sinistra si adegua. Perché il frame funziona: chi si oppone al decreto, chi solleva dubbi, viene subito dipinto come complice del caos. Il gioco è semplice: o sei con l’ordine, o sei con il disordine. Nessuna sfumatura. Nessuna complessità. E così la repressione diventa mainstream, la sorveglianza un servizio pubblico, il controllo un bene comune.

Il problema non è il decreto in sé — che pure è scritto con la mano pesante — ma la logica che lo sottende: l’idea che la democrazia sia tollerabile solo finché è mansueta. Che le piazze vadano bene solo se applaudono. Che il dissenso, per non diventare pericoloso, debba restare invisibile.

Ed è qui che si consuma la truffa più grande. La più sottile. La più pericolosa.
L’emergenza come routine.
La sicurezza come ideologia.
La libertà come variabile secondaria.

E allora non importa se i fatti dicono che non ci sono barricate. Basta evocarle. Basta insistere. Basta dipingere le manifestazioni come pericolo, gli slogan come minacce, le richieste come atti sovversivi. Poi ci pensa il decreto.

Il vero manganello oggi non ha più bisogno di scendere per strada.
Gli basta essere firmato.

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