Una notte intera sotto le sirene. Kiev si sveglia tra i detriti e le statistiche, mentre Mosca fa l’ennesimo check-in nell’hotel a cinque stelle dell’inferno. Trentaquattro missili, undici droni, dieci città colpite: l’ultima riga del bollettino recita “tregua lontana”. Ma la verità è che la tregua non è mai stata nemmeno all’orizzonte. È una parola per chi muore, non per chi comanda.
Le bombe cadono, l’Occidente scrolla. Trump è tornato alla Casa Bianca ma guarda Kiev come un problema da “deal”, non da guerra. L’Europa, invece, si riunisce tra sedie ergonomiche e indignazioni intermittenti. Zelensky urla nel vuoto come un attore a fine tournée. Il Parlamento Europeo ha il ciclo, Putin ha l’artiglieria.
E mentre qui si manifesta contro il riarmo—che cosa romantica—Putin sgancia bombe infischiandosene del nostro mondo politically correct. Lui non ha bisogno di hashtag, né di consensi: ha già tutto quello che serve per devastare.
Questa non è guerra, è streaming. Gli attacchi arrivano in orario prime-time, le foto delle città sventrate fanno più views dei Reel di Taylor Swift, e ogni missile è una notifica sul telefono. Ci siamo abituati al conflitto come ci si abitua al traffico sulla tangenziale: fa rumore, ma non cambia la rotta.
Il vero silenzio è quello dell’Occidente. La NATO gioca a Risiko, l’Italia applaude Zelensky ma vende gas a chi lo bombarda. La parola “pace” è diventata un concetto da podcast motivazionale, mentre l’unica diplomazia rimasta è quella dei resti umani raccolti sotto le macerie.
Nel 2025, morire per l’Europa è ancora una possibilità. E nessuno ci trova più niente di strano