Andrea Di Nino non voleva morire. Non il 21 maggio 2018, non in quella cella di isolamento del carcere di Mammagialla, a Viterbo. Non a pochi giorni dalla libertà. Lo aveva detto più volte: “Non vedo l’ora di riabbracciare i miei figli”. Eppure quel giorno, nella versione ufficiale, è stato trovato impiccato con un lenzuolo stretto nello stipite della finestra. Caso archiviato come suicidio. Fino ad ora.
Omicidio volontario?
Perché la Procura ha riaperto il fascicolo. Stavolta per omicidio volontario. A far saltare il coperchio è stato un supertestimone, un altro detenuto, che ha raccontato agli inquirenti una scena molto diversa da quella che per anni è rimasta confinata negli atti. È grazie a lui – scrive Il Messaggero – se il caso è stato riaperto, con un’indagine a carico di ignoti. Ma con una dinamica che, se confermata, lascerebbe pochi dubbi.
Andrea Di Nino, 36 anni, romano, era dentro per un cumulo di pene. Ma il fine pena era vicino. Non c’erano ombre, secondo la famiglia. Nessun gesto, nessun segnale. Solo la voglia di uscire. “Non si sarebbe mai suicidato”, ripetono da sei anni i parenti, inascoltati. Adesso, forse, qualcuno ha cominciato a sentire.
La testimonianza
La testimonianza nuova parla chiaro. Secondo quanto riportato dal quotidiano romano, tre agenti della polizia penitenziaria – già noti tra i detenuti per i loro metodi violenti – sarebbero entrati nella cella di isolamento dove si trovava Di Nino. Lui avrebbe urlato, chiesto aiuto, poi sarebbe stato trascinato via, inerme. “Questo è morto”, avrebbe detto uno degli agenti agli altri. Una frase secca, definitiva. Come una sentenza.
Intanto, su quella morte si è già aperto un processo. Non per omicidio, ma per omicidio colposo. Imputati: l’allora responsabile dell’UOS Medicina penitenziaria territoriale dell’ASL di Viterbo, un assistente capo della polizia penitenziaria, il medico di guardia e il direttore del carcere. Quest’ultimo è già stato assolto in primo e secondo grado. Ma l’udienza di maggio potrebbe cambiare tutto.
Il legale della famiglia Di Nino – che ha condotto indagini difensive per conto dei parenti – chiederà la sospensione del processo, vista la nuova inchiesta aperta dalla procura. Perché se davvero Andrea non si è tolto la vita, allora non si tratta solo di colpa. Ma di responsabilità precise, di un crimine rimasto coperto da silenzi e omissioni.
E forse, anche del disinteresse collettivo. Perché in fondo, quando si muore in carcere, si è già colpevoli due volte: una per la giustizia, l’altra per l’opinione pubblica, che raramente vuole sapere.