C’erano una volta i fiori d’arancio a Palazzo Parigi, le capsule glitterate, gli shooting tra Dubai e Portofino. Ora ci sono esuberi, bilanci spariti e capitali in fuga. La favola imprenditoriale di Chiara Ferragni si è inceppata, e la parola d’ordine – nelle società che portano il suo nome o orbitano nella sua galassia – non è “rilancio”, ma “ridimensionamento”.
La società Fenice
La più esplicita è Fenice Srl, la società di punta, quella che ha incassato per anni milioni in licenze e collaborazioni e che oggi tenta una risalita più contabile che creativa. Dopo lo scossone del Pandoro-gate, l’amministratore Claudio Calabi ha tirato giù la saracinesca: via una parte significativa del personale, 210mila euro bruciati in scivoli d’uscita solo nel 2023. Al 31 dicembre, i dipendenti erano 27. Oggi sono meno. Molti meno.
A questo si aggiunge un dettaglio surreale: tra il 2022 e il 2023 Fenice ha goduto di un piccolo esonero contributivo concesso dall’INPS, poco più di 5mila euro, per l’assunzione di un giovane lavoratore. Ironia della sorte: il rischio è che quel giovane assunto col bollino “incentivo statale” sia già stato accompagnato gentilmente alla porta. Più che Fenice, un’araba fenice al contrario.
E se questa è la società “sana”, figuriamoci le altre. Fenice Retail, la controllata che avrebbe dovuto espandere il marchio Chiara Ferragni nei negozi fisici, non ha mai pubblicato un bilancio. Ma le note di Calabi parlano chiaro: siamo ai titoli di coda. Nessun piano di rilancio, nessuna visione. Solo un grande, elegante nulla.
La holding personale della Ferragni
Sisterhood, la holding personale di Chiara – quella che controlla Tbs Crew, società madre delle campagne promozionali finite nel mirino dell’Antitrust – non presenta numeri da oltre un anno. Il bilancio 2024, quello cruciale per capire l’impatto della crisi, non si trova. I dati disponibili risalgono a fine 2022: 5,8 milioni di liquidità e 21 milioni di patrimonio netto. Ma quanto è evaporato nel frattempo, nessuno lo sa.
Intanto il sistema regge con la cassa, ma è chiaro che il modello Ferragni – basato su percezione, status e storytelling – non è più replicabile come prima. La crisi d’immagine ha colpito dove fa più male: nel valore percepito. E ora anche Valentina Ferragni, la sorella minore sempre dichiaratamente “fuori dal giro pandorato”, mostra segni di cedimento. La sua società, Vieffe, ha chiuso il 2023 con una perdita di un milione di euro. Il bilancio è ancora positivo, ma in contrazione. E in certi ambienti – gioielli di fascia media, pubblico giovane, brand building digitale – la parola “fiducia” pesa quanto una collezione intera.
Il problema non è solo reputazionale. È sistemico. Nessun brand – nemmeno il più potente – può permettersi di rimanere senza narrazione, senza dati, senza bilanci. La Ferragni company è nata sull’onda lunga della visibilità e ha prosperato sulla mitologia della trasparenza patinata. Ma ora che il glamour è sparito, restano solo le righe di un bilancio che nessuno ha ancora avuto il coraggio di scrivere.