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Saranno 32 gli istituti penitenziari a dotarsi di spazi dedicati ai colloqui intimi.

Nel carcere di Bollate, una detenuta e un uomo – esterno, regolarmente ammesso al colloquio – sono stati sorpresi dopo aver consumato un rapporto sessuale in una stanza per i colloqui, rimasta aperta. Due ore, una porta non chiusa a chiave, il tutto in un contesto di regole ancora non codificate, in una terra di mezzo tra diritto e rimozione, tra umanità e disciplina.

L’episodio – riportato da più fonti e confermato dalle autorità carcerarie – non ha avuto alcuna componente violenta, né è avvenuto fuori controllo. Eppure, ha generato un’ondata di reazioni indignate, alimentate da una visione ancora profondamente moralistica del carcere. Una visione che dimentica – o finge di non sapere – che il desiderio, l’affetto, l’intimità non si cancellano con una sentenza.

Chi ha paura della porta socchiusa?

Quella porta lasciata accostata diventa simbolo perfetto del disagio culturale italiano di fronte alla sessualità vissuta dietro le sbarre. Non è la sicurezza che manca – nessuno è entrato, nulla è stato danneggiato – ma è la percezione che turba. L’idea che il carcere non sia un luogo dove la vita accade, ma una bolla sterile dove ogni funzione corporea, ogni bisogno relazionale, vada sospesa o negata.

Eppure, proprio in questi mesi, il sistema penitenziario italiano sta finalmente muovendo i primi, timidi passi verso il riconoscimento pieno della sessualità come diritto. A distanza di oltre un anno dalla storica pronuncia della Corte Costituzionale, che ha definito il diritto all’intimità come “un vero e proprio diritto soggettivo” del detenuto, il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) ha diramato le linee guida operative che aprono a colloqui intimi regolamentati.

Dalle sbarre ai sensi: il diritto al corpo entra in carcere

Le nuove disposizioni sono chiare: i detenuti potranno incontrare i propri partner in spazi idonei, riservati, in assenza di telecamere, con l’obiettivo dichiarato di tutelare la dignità, la sfera affettiva e sessuale, ma anche la stabilità dei legami familiari. Il tutto con regole rigorose: autorizzazione preventiva, relazione stabile comprovata, e il rispetto della riservatezza. La durata? Al massimo due ore. Una coincidenza amara con l’episodio di Bollate, che paradossalmente anticipa i tempi della riforma.

La sperimentazione partirà in sei istituti pilota – Brescia, Trento, Civitavecchia, Bologna, Sollicciano (Firenze) e Secondigliano (Napoli) – e sarà estesa progressivamente fino a coinvolgere 32 strutture. Non è una rivoluzione. È un inizio. Ma segna un cambio di paradigma: non più negare il corpo, ma normarlo con umanità.

Intimità non è privilegio, ma funzione vitale

Chi riduce il carcere a punizione dimentica che, in una società civile, la detenzione è pena della libertà, non annientamento della persona. E la persona è fatta anche di bisogno di contatto, di pelle, di sguardi privati. In tutta Europa, da anni, la sessualità in carcere è gestita con regole chiare: colloqui prolungati, spazi riservati, in alcuni casi veri e propri mini-appartamenti per incontri familiari. In Italia, invece, ogni apertura sembra una concessione scandalosa, ogni gesto d’amore un abuso di sistema.

Ma la vera violenza non è in una porta accostata. È nell’ostinazione a ignorare che la rieducazione passa anche dalla possibilità di amare. E che il rispetto del corpo è spesso il primo passo per restituire rispetto alla persona.

Nel carcere, il tempo si misura in ore. L’umanità, invece, si riconosce nei dettagli: una stanza chiusa, una luce accesa, una mano tesa. O una porta socchiusa che ci chiede, silenziosamente, di guardare dentro.

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