
Aboubakar Soumahoro non molla. Dopo lo scandalo che ha travolto la sua figura politica – tra cooperative per migranti, soldi pubblici malgestiti, accuse verso moglie e suocera per guadagni illeciti e un’intera impalcatura ideologica che si è sbriciolata sotto il peso della realtà – eccolo pronto a rientrare in scena. Con un doppio colpo ad effetto: una proposta di legge per istituire come festa nazionale la fine del Ramadan e la sua candidatura alle elezioni comunali di Monfalcone, in Friuli Venezia Giulia. Una mossa che, più che un ritorno in punta di piedi, sembra un tentativo disperato di rientrare dalla porta di servizio, nel pieno di una crisi di credibilità ormai conclamata.
La strategia folle di Soumahoro
A riportare la notizia è il Corriere della Sera, che svela come il deputato – formalmente ancora parte del gruppo Misto ma politicamente ai margini – abbia deciso di far leva sull’unica carta che gli resta: riposizionarsi come voce simbolica delle cosiddette “minoranze invisibili”, ovvero, come le definisce lui, “le persone di origine straniera nate in Italia, che vivono immerse nelle disuguaglianze e nell’assenza di diritti”. Per farlo, però, sceglie un terreno già rovente: Monfalcone, dove da mesi si discute della gestione dell’immigrazione, dell’integrazione e delle tensioni legate alla presenza crescente della comunità bengalese e di richieste religiose sempre più insistenti, tra moschee abusive, preghiere collettive in piazza e proteste contro il sindaco leghista.
In questo contesto, Soumahoro si ripresenta con la proposta più divisiva possibile: rendere festiva per legge la fine del Ramadan. Una provocazione in piena regola, che però, nel suo schema, rappresenta il primo tassello per costruire un vero e proprio “partito islamico all’italiana”. Un progetto che in passato è stato solo accennato da altri attivisti o ex politici, ma che mai nessuno aveva formalizzato come proposta parlamentare. Lui invece lo fa, con la stessa disinvoltura con cui mesi fa affermava di “non sapere nulla” degli affari di famiglia, mentre intascava compensi dalle stesse cooperative finite sotto inchiesta.
Paradosso all’italiana
Il paradosso è che Soumahoro, mentre l’Italia discute di legalità, convivenza e rispetto delle regole, sembra voler capitalizzare proprio quel senso di frattura sociale per rientrare in partita. “Difendere gli invisibili” è diventato il suo mantra, ma in questo momento è difficile non leggere dietro la sua mossa l’ennesimo tentativo di spostare l’attenzione dai suoi guai giudiziari e politici a una narrazione che lo riabiliti come martire del sistema.
Ma la memoria collettiva non è così corta come spera. Gli italiani ricordano bene le immagini di lui in Parlamento con gli stivali infangati, la retorica dei “braccianti sfruttati” contrapposta al silenzio imbarazzante sui milioni spariti nelle cooperative di famiglia. E oggi, quella stessa figura che si professava paladino degli ultimi, torna in pista con un’agenda che sembra più studiata per polarizzare che per risolvere.
Le prossime settimane diranno se il suo nome comparirà davvero sulle schede elettorali di Monfalcone. Ma il senso di déjà vu è già fin troppo forte: un uomo politico screditato che tenta la resurrezione puntando tutto sulla divisione, sulla rabbia identitaria, su simboli forti e polarizzanti. E se qualcuno lo chiamerà “provocazione” o “strategia di sopravvivenza”, forse non sbaglierà. Ma sarebbe più corretto chiamarla per quello che è: l’ennesima mossa disperata per restare aggrappato a un palco che da tempo gli ha voltato le spalle.