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Abuso di posizione dominante nella ricerca online. La tempesta globale che sta colpendo Google


Dagli Stati Uniti al Giappone passando per Londra, Google fa il giro del mondo… in tribunale. La posta in gioco? Miliardi, monopoli e il controllo dell’intero ecosistema digitale.

Google è di nuovo nei guai. E questa volta non c’entrano le solite accuse da “Grande Fratello dei dati” o gli algoritmi troppo invadenti. Stavolta è proprio il cuore del suo impero a traballare: la pubblicità online. Sì, quella che ti mostra l’annuncio della crema antiforfora un secondo dopo che hai sussurrato “capelli secchi” davanti al microfono del telefono.

Il 17 aprile, una giudice federale americana, Leonie Brinkema, ha stabilito che il colosso californiano ha giocato sporco su due mercati strategici: quello degli scambi pubblicitari e quello degli strumenti che i siti usano per vendere gli spazi pubblicitari. In parole povere, ha truccato il tavolo da gioco. Le regole, le carte e anche i dadi erano tutti in mano sua.

Una piccola consolazione? In un terzo ambito – quello degli strumenti usati dagli inserzionisti per comprare annunci – il giudice ha detto che il monopolio non è stato provato. Ma per il resto, il quadro è piuttosto chiaro: Google, secondo il tribunale, ha violato le leggi antitrust. E adesso il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti potrebbe anche chiedere una misura drastica: smembrare le attività pubblicitarie dell’azienda, costringendola magari a vendere il suo gioiello, Google Ad Manager.

Come se non bastasse, c’è pure un secondo processo in corso. Sempre negli USA, sempre per accuse di monopolio, ma questa volta legate al motore di ricerca e al browser Chrome. Sì, proprio quello che stai usando per leggere questa notizia.

Intanto, fuori dai confini americani, la situazione non è più tranquilla. In Gran Bretagna, Google è stata appena citata in giudizio con una class action da oltre 5 miliardi di sterline. L’accusa? Abuso di posizione dominante nella ricerca online. In Giappone, invece, l’antitrust ha aperto un’indagine a ottobre 2024. Insomma, il clima è quello di una tempesta legale globale.

Google, dal canto suo, non ci sta. La vicepresidente per gli affari istituzionali, Lee-Anne Mulholland, ha risposto con il classico “non siamo d’accordo, faremo appello”. Anzi, ha rivendicato con fierezza che i loro strumenti sono semplici, convenienti ed efficaci. Tradotto: se ci scelgono tutti, un motivo ci sarà.

Il problema, però, è proprio questo. Perché quando tutti ti scelgono non solo per scelta, ma perché non hanno alternative vere, non si chiama più mercato libero. Si chiama dominio. E se quel dominio riguarda uno dei mercati più ricchi e pervasivi del pianeta – la pubblicità digitale – allora non è solo un problema aziendale, è un tema politico, culturale, quasi esistenziale.

Mentre le azioni di Alphabet scivolano in Borsa, resta una domanda sospesa nell’aria: e se davvero un giorno due giudici, in due processi diversi, ordinassero a Google di vendere sia la sua macchina pubblicitaria che il suo browser… che succederebbe? Magari, per la prima volta da anni, potremmo vedere cosa succede in rete quando Google non è l’unico regista dello spettacolo.

Per ora, lo show continua. Ma stavolta, qualcuno ha fischiato fallo.

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