È il minuto 14:46 del 17 aprile quando la tragedia prende forma, nel silenzio spezzato dell’altitudine. La cabina della funivia del Monte Faito, in arrivo alla stazione di vetta a mille metri d’altezza, si arresta. O almeno dovrebbe. Ma qualcosa va storto. Il cavo di trazione si spezza, il freno d’emergenza non si attiva. E la cabina, ormai fuori controllo, scivola all’indietro per oltre un chilometro e mezzo. Una corsa mortale che si conclude con il precipizio. L’impatto è devastante. Quattro le vittime accertate: Janan Suliman, 25enne israeliana, Margaret Elaine Winn, cittadina britannica di 58 anni, un altro uomo di nazionalità inglese e l’operatore di bordo, Carmine Parlato, 59 anni. Un quinto passeggero, un trentenne, è ricoverato in condizioni gravissime.
Monte Faito e le indagini della Procura
A indagare sulla dinamica e sulle responsabilità è la procura di Torre Annunziata, con il pm Giuliano Schioppi e il procuratore Nunzio Fragliasso. Le ipotesi di reato: omicidio colposo e disastro colposo. Tre gli interrogativi centrali: perché si è spezzato il cavo? Perché il freno non ha funzionato? E soprattutto: era prudente far viaggiare la funivia con quelle condizioni meteorologiche, tra vento forte e allerta gialla?
L’amministratore delegato di Eav, Umberto De Gregorio, difende l’operato dell’azienda: “La funivia era stata riaperta dieci giorni fa, con tutte le condizioni di sicurezza rispettate. Sulle condizioni meteo decide il direttore di esercizio: evidentemente si è ritenuto che non ci fossero criticità tali da fermare l’impianto”. Anche l’Agenzia nazionale per la sicurezza ferroviaria (Ansfisa) conferma: i controlli erano stati effettuati e accompagnati da regolari relazioni firmate. Presente durante i sopralluoghi anche il pm aggiunto Giovanni Cilenti.
La prima ricostruzione tecnica parla chiaro: durante la fase di rallentamento, mentre le due cabine – una in salita e una in discesa – si incrociavano a metà corsa, nei pressi di uno dei piloni in cemento armato, il cavo si è improvvisamente spezzato. Da lì, il cedimento a monte. La cabina è scivolata indietro, senza controllo, fino al vuoto. Nessuna frenata, nessun arresto di sicurezza. Ed è proprio questo il nodo più inquietante.
Antonello De Luca, professore ordinario di Tecnica delle costruzioni alla Federico II e consulente per l’inchiesta sul Mottarone, traccia un parallelo con l’altra tragedia delle funivie italiane: “Questi impianti funzionano con due funi portanti e una traente. Se una cede, deve entrare in funzione un freno d’emergenza. Mi sembra che sia intervenuto quello a valle, ma a monte non è chiaro cosa sia successo. Se, e come, il freno abbia agito. Ma è troppo presto per dirlo con certezza”.
E proprio l’ombra del Mottarone torna a farsi minacciosa. La dinamica è simile, le domande aperte ancora le stesse. Con una differenza che brucia: stavolta, forse, si poteva evitare. Ora la giustizia deve risalire lungo quel chilometro e mezzo di silenzio spezzato. Dove la cabina correva all’indietro. Verso la morte.