Uno sguardo incantato agli affreschi, un “wow” sussurrato nella terza loggia, la mano stretta al figlio e il passo lento dietro le guardie svizzere in alta uniforme. J.D. Vance si è presentato in Vaticano come si entra in un luogo sacro: da fedele prima che da politico. Convertito al cattolicesimo nel 2019, oggi è vicepresidente degli Stati Uniti e volto “morale” dell’amministrazione Trump. A Roma porta con sé tutta la scenografia del pellegrinaggio istituzionale, figli compresi. Ma dietro i sorrisi e le strette di mano con il cardinale Parolin, restano le frizioni profonde tra la Santa Sede e la nuova Casa Bianca.
Sulla carta è un incontro cordiale. Nei fatti, un confronto delicato tra due visioni del mondo che raramente si sono incrociate senza scintille: l’accoglienza ai migranti, i tagli alla cooperazione, l’uso distorto delle parole di Sant’Agostino da parte di Trump per giustificare politiche repressive. Da quando il tycoon è tornato al potere, Bergoglio ha serrato i ranghi con un episcopato americano tutt’altro che entusiasta, ma ora preoccupato dalle nuove rigidità.
Il comunicato della Casa Bianca parla di “fede comune” e impegno per la pace, ma il resoconto vaticano è più freddo: un generico “scambio di opinioni”, e il richiamo netto alla necessità di “una pace giusta e duratura” tramite il dialogo, non l’imposizione. Nessun allineamento automatico, nessuna benedizione politica. E soprattutto nessuna udienza con Francesco, che secondo alcune fonti sarebbe stata prevista in forma privata, ma poi smentita. Un dettaglio? Mica tanto.
Perché l’assenza del Papa, nella liturgia diplomatica vaticana, pesa. Segnala distanze ancora da colmare, e conferma che le divergenze restano tutte. Vance è stato accolto con rispetto, sì, ma il messaggio è chiaro: la collaborazione non è esclusa, ma va meritata. Con meno propaganda, più coerenza. E magari senza citare i santi a sproposito.