Una generazione cresciuta con l’algoritmo al posto del pensiero critico.
Bambini educati da YouTube, ragazzi formati dal codice binario della viralità: se fai male, ma fai numeri, hai vinto. La violenza è diventata contenuto. L’empatia, un errore di programmazione.
C’è qualcosa che si è rotto. Lo si capisce nei dettagli: nei quindicenni con il tirapugni in tasca, negli smartphone sollevati per filmare e non per fermare, nel silenzio che segue ogni violenza postata su TikTok come fosse una challenge.
A Montebelluna, provincia operosa di Treviso, un ragazzino è stato pestato a sangue all’ingresso della scuola, l’Istituto Einaudi Scarpa. Quindici contro uno. Perché? Perché aveva osato filmare un atto di bullismo e prendere le difese di un compagno. Una colpa troppo grossa, per chi conosce solo la legge del branco.
La dinamica è già virale: aggressione all’alba, lo studente scende dall’autobus, viene circondato. Insulti, poi calci, pugni, tirapugni. Qualcuno ride. Qualcuno riprende. Nessuno interviene. Il ragazzo finisce in ospedale. Il video finisce online.
Ora si parla di espulsioni. Il dirigente scolastico valuta, il sindaco promette presìdi. Ma il punto è un altro: non è un caso isolato. È uno specchio.
A Galatina, mercoledì scorso, è successo di nuovo: un ragazzo con disabilità è stato assalito da coetanei, insultato, picchiato, deriso. Tutto ripreso, tutto postato. La denuncia è arrivata solo in un secondo momento.
Ma perché? Perché viviamo un’epoca in cui la violenza non si nasconde più. Si esibisce. Si esalta.
È diventata moneta sociale, forma di linguaggio, prova di appartenenza.I ragazzi vedono tutto, ogni giorno: risse, umiliazioni, minacce, morti vere. Non nei film, ma nei feed. Scorrono contenuti senza filtri, su TikTok, Instagram, YouTube. E poi ci sono le fogne parallele:
le chat su Telegram, i canali privati, gli archivi di orrore, i video di torture, vendette, pornografia estrema, istigazione all’odio.
Migliaia di utenti. Zero regole. Zero controlli. È lì che si forma l’immaginario. È lì che si normalizza la ferocia.
Una generazione cresciuta con l’algoritmo al posto del pensiero critico.
Bambini educati da YouTube, ragazzi formati dal codice binario della viralità: se fai male, ma fai numeri, hai vinto. La violenza è diventata contenuto. L’empatia, un errore di programmazione.
E mentre le istituzioni parlano di “segnali da non sottovalutare”, il Paese assiste. Attonito, distratto, anestetizzato. Come se tutto questo fosse parte di una narrazione inevitabile, una degenerazione naturale.
Ma non è così.
Non è naturale che un adolescente vada a scuola pronto per un pestaggio.
Non è normale che l’indignazione duri meno di una storia su Instagram.
Non è accettabile che chi denuncia diventi il bersaglio.
Chi cresce con l’idea che la forza sia spettacolo, che la paura si monetizzi in visualizzazioni, che il dolore sia share — non è colpa sua. È colpa nostra. Dei modelli che gli abbiamo dato. Delle battaglie che non abbiamo combattuto. Dei silenzi che abbiamo normalizzato.
Serve più di un presidio davanti alle scuole. Serve una rivoluzione educativa, sociale, culturale.
Serve dire ai ragazzi che il coraggio non è stare zitti. Che essere umani non è un bug. Che restare soli per difendere qualcuno è mille volte meglio che stare in quindici a massacrare.
O finiremo tutti lì, attorno al prossimo corpo a terra, con il telefono in mano.
A filmare la fine di ogni senso.