C’è chi prega, chi piange, chi ruba i fiori destinati alla camera ardente.
C’è chi posta la fila, chi fotografa il corpo, chi si commuove a comando.
C’è chi si sente parte di qualcosa. E chi gioca.
Perché è questo che facciamo, ormai: giochiamo anche con la morte.
La morte del Papa come una challenge collettiva, un evento immersivo, una sacra pantomima dove ogni gesto è validato dallo sguardo altrui.
Il lutto come spettacolo partecipativo. La fila come prova d’amore. Il selfie come ex voto.
Non è fede, non è affetto, non è nemmeno idolatria. È – provocazione – una sorta di gamification emotiva: si entra in un rito perché tutti ci entrano. Si piange perché si deve. Si partecipa perché è un’occasione per esserci, per mostrarsi, per guadagnare una medaglia invisibile. Il badge “ero lì”. Il trofeo “ho pianto anch’io”.
Eppure, basterebbe rileggere le sue parole.Sul dramma dei migranti, sulla guerra trasformata in business, sugli ultimi resi invisibili.
Sul perdono. Sull’omosessualità: «Se una persona è gay chi sono io per giudicare?». Sulla guerra: ”Non dimentichiamo la martoriata Ucraina e pensiamo al popolo palestinese e israeliano. Che il Signore ci porti a una pace giusta, si soffre tanto, – soffrono i bambini, gli ammalati, i vecchi, e muoiono tanti giovani. La guerra sempre è una sconfitta. Non dimentichiamolo. Sempre è una sconfitta”. Sulla Chiesa che doveva tornare povera, e invece resta travestita da spa del sacro; “Vorrei una Chiesa povera per i poveri”.
Parlava. Gridava. Chiedeva coraggio. E noi?
Scorrevamo.
Silenziati i suoi messaggi, oggi ne amplifichiamo il corpo.
Dimenticate le sue battaglie, oggi ne idolatriamo la bara.
Un Papa scomodo da vivo, “#santosubito” da morto. Intanto, fuori dalle basiliche, è caccia alla reliquia. Fiori strappati, santini brandizzati, oggetti toccati trasformati in moneta simbolica. Ma soprattutto:
sulle piattaforme online spopolano le aste per frammenti di memoria.
Una papalina indossata e autografata da Francesco venduta a oltre diecimila euro fonte.
Nel frattempo il giornalismo si accanisce su una macchia sul volto.
Zoom. Speculazioni. Il nulla cosmico della cronaca travestito da analisi dotte e dietrologie inutili.
Una corsa al dettaglio necrotico, come se lì dentro potessimo ritrovare un senso.
Ma cosa ci riavvicina davvero alla fede, oggi?
Non il culto dell’immagine. Non la massa in fila.
Forse solo il vuoto. L’imbarazzo. Il silenzio di chi non sa più pregare e allora si connette.
Forse ci si ascolta solo da morti perché da vivi non disturbiamo più abbastanza.
E mentre il corpo viene esposto,mentre le televisioni zoomano le lacrime, mentre lo Stato proclama cinque giorni di lutto come fossero i livelli di un videogioco commemorativo,una domanda resta in fondo allo schermo:
Quando è successo che anche la morte ha smesso di farci paura e ha iniziato a intrattenerci?
Forse quando abbiamo sostituito il mistero con la condivisione.
Quando la sacralità ha smesso di turbare e ha iniziato a piacere.
Quando anche il lutto è diventato experience design.
Un’esperienza da vivere, registrare, post-produrre.
Il dolore collettivo non si misura più in silenzi.
Si misura in visualizzazioni, in code, in lacrime socialmente accettabili.
Siamo dentro un nuovo medioevo, ma stavolta è retroilluminato.
Con meno fede e più filtri.
Ora si passa al reality del conclave.
Tutto gratis, in chiaro fruibile a reti unificate.