Come racconta il New York Times (fonte qui,) la Cina ha già risposto alla guerra commerciale trumpiana non alzando muri né allungando trattative infinite, ma facendo scendere in campo la sua arma meno rumorosa e più letale: un esercito di robot intelligenti, alimentati da intelligenza artificiale, distribuiti capillarmente in fabbriche grandi e piccole, pronti a garantire continuità produttiva mentre la forza lavoro umana invecchia o si dissolve.
Non è improvvisazione. È il frutto di un progetto antico, lucido: “Made in China 2025”. Dieci anni fa, mentre l’Occidente si interrogava sull’impatto etico dei big data e sulle regolamentazioni della privacy, Pechino selezionava dieci settori strategici da portare al dominio globale. In cima: la robotica industriale e l’intelligenza artificiale. Riportiamo un passaggio dell’articolo: “Le fabbriche in Cina sono oggi più automatizzate rispetto a quelle degli Stati Uniti, della Germania o del Giappone. La Cina ha più robot industriali per ogni 10.000 lavoratori manifatturieri rispetto a qualsiasi altro Paese, ad eccezione della Corea del Sud e di Singapore, secondo quanto riportato dalla International Federation of Robotics.”
Oggi, come ribadisce il premier Li Qiang, l’obiettivo è “sviluppare vigorosamente” robot intelligenti, inserendo l’automazione e il pensiero computazionale al centro della politica economica nazionale. Mentre in Europa si discute di comitati etici e di carte morali sull’uso dell’AI, la Cina trasforma ogni algoritmo in un ingranaggio di potere. Qui l’intelligenza artificiale non è tema da filosofia accademica: è strumento concreto, tangibile, per garantire produttività, indipendenza, e dominio economico.
All’interno delle fabbriche, tra le file di robot e scanner biometrici, cresce l’ansia umana. Come racconta Geng Yuanjie, operaio della Zeekr (fabbrica di produzione autobilistica .ndr) intervistato dal New York Times, il timore di essere sostituiti da una macchina non è più una paura vaga: è una realtà palpabile. La corsa all’automazione, se da un lato preserva la competitività, dall’altro crea nuove sacche di fragilità sociale, nuovi vuoti esistenziali che nemmeno il partito più potente del mondo può ignorare.
Mentre in Occidente si continua a dibattere se sia “giusto” o “sbagliato” affidarsi all’intelligenza artificiale, la Cina fa un passo oltre: si assume il rischio di convivere con un sistema che genera al contempo potere e inquietudine.
Accetta di correre sul filo della paura, convinta che il vantaggio tecnologico futuro varrà ogni sacrificio presente.
Nel frattempo, l’America di Trump annaspa tra minacce e tentativi di distensione, oscillando senza una strategia chiara. Dopo settimane di tensioni, il presidente lascia intendere una possibile riduzione dei dazi, mentre il segretario al Tesoro Scott Bessent ammette che, al momento, di trattative serie con Pechino non ce ne sono.
Dal ministero degli Esteri cinese arriva, puntuale, la replica: non vogliamo combattere, ma se necessario combatteremo fino in fondo. E mentre pronunciano queste parole, i cinesi continuano a costruire – in silenzio – il loro impero di intelligenza artificiale.
Forse il vero duello del nostro tempo non è tra chi ha più bombe o più dazi. È tra chi si arrovella su come regolare il futuro, e chi – senza esitazioni – se lo sta già cucendo addosso.